Lo scrittore americano Sherwood Anderson, nella sua straordinaria autobiografia, Storia di uno scrittore di storie (Fidenza, Mattioli 1885, euro 15,90) per mostrare quanto poco i suoi pochi studi letterari l’avessero fatto scrittore, quanto invece molto aveva potuto la passione congenita di raccontare le vicende della vita sua e degli altri, insistè molto sull’esistenza di una trasmissione genetica della capacità di racconto. A lungo, infatti, nella prima parte del libro, il vero protagonista della storia è il padre, che negli anni successivi alla guerra di secessione per mestiere e per passione gira, portando il ragazzo con sé, tra i villaggi degli stati delle grandi pianure, intrattenendo oralmente, nelle bettole e negli empori, un pubblico di commercianti e contadini, tanto assetati di storie quanto forse incapaci di leggerle. E dentro queste storie, vere o stralunate, esagerate o fedelmente rappresentate c’era l’America, popolare e non, ora verosimile ora incredibile, ora epica ora triviale.

Bestioline
Aria di famiglia
Ognuno ha la sua provincia da raccontare. Per questo, pur nella diversità delle situazioni, bisogna richiamare questa storia anche a proposito di un’altra coppia padre / figlio che, pur non avendo quella ispirazione di editoria industriale che contraddistinse la famiglia Dumas, ebbe modo di tramandarsi una spiccata missione di mediazione tra il proprio mondo tradizionale, l’Inghilterra, e quello nuovo, coloniale, dell’Impero britannico: si tratta della coppia Kipling, composta da John Lockwood, padre, e Rudyard, figlio.

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Padre e figlio Kipling

J.L. non fu mai propriamente uno scrittore – nella vita fece altri mestieri, l’artista, docente in Accademia e fu anche conservatore di siti monumentali della colonia britannica del sub-continente indiano. Ciò nonostante Beast and Man in India: a Popular Sketch of Indian Animals in Their Relations with the People, un corposo volume stampato nel 1891 a Londra e accompagnato da un centinaio di incantevoli illustrazioni, quasi sempre dell’autore stesso, rivela un sorprendente talento narrativo. Gioca a favore anche la scorrevole traduzione nella sua prima parziale edizione italiana, curata da Alessandra Contenti: Piccolo bestiario indiano (Exòrma, euro 13,50).

Non si tratta magari di storie d’invenzione né tanto meno di storie per ragazzi, bensì di vera e propria saggistica, che ha il pregio di avere un carattere molto narrativo. E se si ricordano i temi di alcune produzioni letterarie del figlio Rudyard (Il libro degli animali, Il libro della Giungla, primo e secondo) l’argomento può certo dirsi familiare. Qui, più precisamente, si parla estesamente della convivenza tra gli esseri umani e gli animali, sia quelli domestici sia quelli selvatici. L’edizione italiana ha selezionato i quattro capitoli del libro dedicati alla scimmia, all’elefante, alla vacca e ai rettili, e ha tradotto un capitolo dedicato ai richiami per gli animali; inoltre, sono riprodotte moltissime illustrazioni tra quelle autografe di J.L.K.

Una scelta più che sufficiente per provare l’emozione di collocarsi nello sguardo stranissimo dell’autore, come solo può esserlo quello di un uomo delle colonie, studioso di arte, desideroso di conoscere e far conoscere una terra e una civiltà che considera sua, o della quale non vorrebbe proprio sentirsi solo ospite armato, e che per questo si trasforma in una specie di antropologo, senza molti strumenti dell’antropologia culturale in verità. Viene forse più facile pensarlo come un testimone e un osservatore (e in effetti lo fu per mestiere, visto che si occupò per conto del governo britannico di documentare la vita artistica e artigianale dell’India del Nord) fatalmente innamorato dei suoi soggetti.

John Lockwood, infatti, ha la straordinaria capacità di fondere in una fluente linea discorsiva ciò che appartiene alla sua esperienza immediata, diretta e superficiale (quella che potrebbe appartenere a un qualsiasi inglese di passaggio o appena arrivato) a ciò che invece è il prodotto di un approfondimento fatto di inchieste, interviste e letture di ogni tipo (ciò che appartiene all’inglese residente). Così che le sue pagine diventano vera legenda, cose da leggere, e anche un po’ da sognare, sebbene non via sia alcunché di fantastico, se non le stesse mitologie prodotte dagli indiani, hindu e musulmani, intorno ai loro animali.

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Vacca morente, dall’edizione originale

L’alienazione della crudeltà
Anzi si può dire che benché non venga mai meno il fascino per il mondo leggendario e magico-religioso, che include credenze che per l’occhio europeo sono solo superstizioni, un bisogno positivistico di concepire un progresso razionale della gestione del mondo animale è sempre attivo. Si biasima il ciarlatano che vorrebbe spellare con una lama la lingua della vacca perché ha convinto il contadino che nella sua rugosità si deposita il male; si ragiona su quanto sia attendibile l’idea che la porosità della pietra pomice possa assorbire il veleno letale di un serpente; o se davvero l’elefante sia un animale stupido e da cosa dipendano i suoi sbalzi d’umore.
E mentre la lettura scorre divertita e stimolata tra centinaia di piccoli casi di amicizia e competizione tra animali e uomini; e si comincia a capire che in questo racconto c’è assai di più di un modo per intrattenere o incuriosire, viene da chiedersi quali ragioni potessero lasciar confidare che la conoscenza di un popolo potesse passare attraverso l’illustrazione dell’atteggiamento verso gli animali.

L’estraneo che è in noi
Parte della risposta la diede lo stesso J. Lockwood nell’Introduzione al suo libro, che sembra prendere le mosse da un editto governativo del 1890, desideroso di moderare ogni tipo di crudeltà verso gli animali. Dunque al centro della relazione uomo / animale c’è il concetto stesso di pietà e la sua filiazione dalle religioni, induismo, islamismo, zorastrismo e buddismo, più o meno presenti in quel territorio. La tesi di Kipling è che la zoofilia sia un antico retaggio storico di tutta la popolazione indiana e che solo la modernizzazione del paese abbia estraniato l’uomo dai suoi animali, fino a renderlo crudele.

Insomma, la preoccupazione che domina questo importante lavoro di descrizione e di illustrazione del mondo animale indiano in relazione a quello umano è in realtà la creazione di un’interfaccia che renda leggibile un mondo estraneo ed estroso allo sguardo occidentale. Anche attraverso la dimostrazione che esso non si possa giudicare con i parametri trasferiti direttamente dalla campagna inglese. Quello di John Lockwood è uno sguardo coloniale ma anche generosamente consapevole della necessità di rieducare il proprio e altrui intelletto a tanta diversa realtà. Si ha un po’ più l’impressione, infatti, che quando il tono si fa fortemente ironico nel raccontare, non sia la volontà di scherno quanto una strategia di coinvolgimento del lettore, che sorride delle cose che lo circondano ma anche di sé stesso. Proprio secondo il miglior humor presente nella saggistica anglosassone, da Shaftesbury e Swift.

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In casa Kipling doveva circolare l’idea che per capirsi intimamente non ci si potesse affidare molto alla sola conoscenza di sé. Nella sua autobiografia, Qualcosa di me, Ruyard racconta che trovandosi in difficoltà nello scrivere un verso di una sua poesia patriottica, The English Flag, e avendo l’abitudine di condividere con i genitori ciò che scriveva, la madre gli chiarì ciò che lui stesso voleva esprimere con questa domanda retorica: «Che sanno dell’Inghilterra coloro che conoscono soltanto l’Inghilterra?»