Dopo l’apertura del presidente siriano ai bombardamenti statunitensi, mirati e coordinati con Damasco, contro i jihadisti dello Stato islamico (Isis) in Siria, il tanto odiato regime di Assad è tornato a essere centrale per gli interessi Usa in Medio oriente. Non solo Stati uniti e Siria stanno collaborando per fermare i combattenti radicali dell’Isis, hanno anche qualcos’altro in comune: entrambi hanno contribuito alla nascita e all’ascesa del temibile movimento jihadista.

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La logica di Assad è molto semplice e condivisa dalle élite militari di altri stati del Medio oriente: in un contesto di rivolte, è sempre utile puntare sulla paura generalizzata dell’ascesa di estremisti e terroristi. In questo modo gli islamisti moderati (i Fratelli musulmani siriani per esempio), ma anche l’opposizione secolare, saranno facilmente messi in un angolo. Questo ha fatto l’esercito egiziano, attivando i movimenti salafiti in occasione delle prime elezioni libere del 2012. Per poi accusare tutti gli islamisti di terrorismo ed avere le mani libere per reprimere i moderati Fratelli musulmani, lasciando fare ai salafiti, diventati i principali alleati del generale Abdel Fattah al-Sisi.

Alti ufficiali vicini ad Assad hanno confermato questa ricostruzione. In altre parole, i terroristi dello Stato islamico (Isis) hanno decimato l’Esercito libero siriano (Els). «Se questi gruppi si scontrano tra loro, il primo a beneficiarne è il governo siriano. Quando hai così tanti nemici che si combattono tra di loro, puoi trarne beneficio», ha aggiunto la fonte.

Ai militari siriani hanno fatto eco gli Stati uniti. «Il regime di Assad ha giocato un ruolo chiave nell’ascesa dell’Isis», ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf. Assad ha sempre negato di aver dato qualsiasi sostegno all’Isis. Eppure nel maggio del 2011, con lo scoppio delle prime rivolte in Siria, il governo di Damasco ha liberato dalla prigione militare di Sagnaya i principali detenuti accusati di terrorismo nella prima di una serie di amnistie. Molti dei prigionieri liberati quel giorno sono ora arruolati nelle file dell’Isis. Qualcosa del genere è avvenuto anche in Egitto il 28 gennaio del 2011, quando con l’acqua alla gola per scioperi e manifestazioni di piazza, la polizia sparì dalle strade, mentre decine di islamisti radicali e detenuti comuni lasciarono le carceri.

Il diplomatico siriano Bassam Barabandi ha spiegato in questo modo gli eventi del maggio 2011: «Il timore di una prolungata rivolta permise il rilascio dei prigionieri islamisti: sono alternativi alla contestazione pacifica». Dal 2012 in poi, i gruppi radicali, con il sostegno indiretto anche degli aiuti militari sauditi e occidentali, hanno proliferato in Siria: dal fronte al-Nusra alla costola siriana di al-Qaeda fino allo Stato islamico (Isis). Quest’ultimo è chiaramente sfuggito dal controllo anche di Assad a tal punto che i jihadisti sono stati impegnati non solo in una guerra senza quartiere contro l’Els ma hanno creato quasi uno stato nello stato. E così l’Isis ha inesorabilmente continuato la sua avanzata, prendendo la città settentrionale di Raqqa. Il centro, dove molti degli stranieri rapiti negli ultimi mesi sono scomparsi, è diventato il quartiere generale dei jihadisti. È qui che Abu Bakr al-Baghdadi ha dichiarato la fondazione del suo califfato. Qualcosa di simile è accaduto spesso anche nella storia egiziana con il terrorismo islamista radicale innescato dalla connivenza con l’intelligence militare (si veda il Sinai).

Damasco e Washington da nemici tornano a essere amici, questa volta contro una creatura «terribile» che hanno entrambi contribuito a far crescere ma che è poi sfuggita al loro controllo.