È un racconto diverso del cinema polacco quello dipanato alle Giornate del cinema muto di Pordenone che si sono appena concluse. Un programma inedito in cui non si parla della scuola di Lodz, e nemmeno degli alfieri del cinema dell’ansia morale nonostante il soggiorno friulano di Krzysztof Zanussi che rimane uno dei suoi maggiori esponenti. D’altronde chi meglio di Zanussi, discendente lontano ma non troppo di un ingegnere friulano emigrato in Polonia, avrebbe potuto fare da traghettatore per il popolo festivaliero? Una scelta azzeccata quella di Jay Weissberg, nuovo direttore artistico della rassegna e storica penna a di Variety.

 

 
La narrazione  si ferma al primo trentennio del Novecento. Ma la grande esclusa è la diva polacca Pola Negri, musa di Ernst Lubitsch e stella hollywoodiana. Una scelta che non dovrebbe però fare scalpore, visto che della grande diva non si è conservata ai giorni nostri per intero che una sola pellicola del periodo polacco (Bestia un film del 1917, ndr), come ha raccontato Zanussi al romano d’adozione Weissberg in un italiano quasi perfetto.

 

 
Dei primordi del cinematografo in Polonia non resta che pochissimo. Nel febbraio del 1896 era già tutto pronto per presentare l’invenzione dei fratelli Lumière in patria, ma gli uffici comunali a Varsavia erano rimasti chiusi quando una delegazione lionese giunse nella capitale. La capitale polacca aveva snobbato il cinema ma lo spettacolo doveva comunque andare avanti, e così la carovana fu costretta a proseguire verso San Pietroburgo.

 

 
Ci arriveranno invece qualche mese dopo le ultime invenzioni di Thomas Edison. Ma il pubblico varsaviano non sembrava particolarmente entusiasta all’idea di spiare delle immagini tremolanti in movimento attraverso un piccolo visore. Un «gran rifiuto» iniziale, che è forse una delle ragioni per cui nell’era del muto l’artigianato del cinema delle attrazioni in direzione meliesiana non abbia mai fiorito in casa.
In programma a Pordenone non sono mancati filmati di breve durata sui fatti di cronaca locale del tempo. Incendio in una fabbrica di fiammiferi (1913) documenta senza fronzoli un intervento dei pompieri polacchi in uno stabilimento di Czestochowa. Difficile trovare altri «catastrofici» nel cinema polacco d’antan, senza essere costretti a inseguire gli orrori della guerra che hanno irrimediabilmente segnato l’immaginario polacco del Novecento.

 

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Di tutt’altro tono invece l’ancora più breve A Parigi in Harley (1924) che documenta la partenza spensierata di un gruppo di motociclisti che attraversano le strade della capitale polacca prima di partire per la Francia.
La rassegna friulana ha proposto agli spettatori anche due mini-retrospettive composte da due lungometraggi ciascuna sulle pellicole ritrovate di Ryszard Ordynski e Henryk Szaro. Più che il primo adattamento cinematografico del poema epico di Adam Mickiewicz Pan Tadeusz diretto da Ordynski, a colpire è L’uomo forte (1929). Si tratta di un piccolo capolavoro di Szaro intriso di crudeltà stroheimiana la cui fotografia espressionistica è opera del torinese Giovanni Vitrotti. Il titolo è lo stesso di un film di Meyerhold di qualche anno prima (1917) anch’esso tratto dal romanzo di Stanislaw Przbysweski. La storia è quella di un uomo, scrittore frustrato, che uccide un amico attribuendosi la paternità del suo manoscritto, L’uomo forte, che avrà enorme successo. La sua compagna però conosce il segreto e l’uomo si troverà in una situazione sempre più intricata.

 

 
Il focus ha permesso una panoramica locale del cinema muto in Polonia, raccontato all’epoca, come meglio di chiunque altro, dalla critica militante polacca Stefania Zahorska. La quale ne denunciava il sentimentalismo e il romanticismo militare, due aspetti che per certi versi hanno continuato a caratterizzare la cinematografia polacca del secondo dopoguerra e oltre. Le giornate pordenonesi hanno dunque rappresentato un’opportunità unica per poter rovistare nell’humus culturale da cui nasceranno le opere grandiose di Wajda o di Kawalerowicz.