Conosco Rosario da quando avevo undici anni e lui sedici. Era amico di Beppe, mio fratello. Ricordo che un giorno con Beppe lo andammo ad accompagnare al porto di Bari. Si imbarcava verso la Grecia. Non era estate. Lui non andava nelle isole dell’Egeo. Partiva per stare fuori tutto l’inverno. La Grecia era solo terra di transito per lui che andava verso l’Oriente. Da allora sono trascorsi quarant’anni e Rosario Simone ha pubblicato Musafir (in arabo viaggiatore) per le Edizioni Ad Est. Il suo è uno straordinario, sincero, umile, commovente diario di viaggio, come non se ne leggono più.
In Musafir, passato un quarto di secolo, Rosario Simone racconta i suoi viaggi negli anni ’80 dalla Libia all’Iraq. Ogni capitolo è un dipinto di un paese, delle sue contraddizioni. È un manifesto contro gli stereotipi e i falsi pregiudizi. È un atto di riconoscenza e d’amore verso quel mondo arabo che lui ha girato con zaino e sacco a pelo. In questi venticinque anni è accaduto di tutto. I personaggi pubblici di cui parla Rosario nel suo libro non esistono più. Gheddafi e Saddam, protagonisti di quella stagione storica e politica, sono stati ammazzati.

Ogni capitolo del diario di viaggio di Rosario Simone è un affresco giornalistico serrato ed empatico con ciò che racconta. Eppure i fatti sono di tanti anni prima. Gli autostop, le attese eterne, il tempo dilatato, il suo senso di claustrofobia in Libia, l’ospitalità eccezionale e gratuita di due ragazzi algerini, un Islam mai invadente nelle sue giornate laiche, i tanti amici arabi e «forestieri» incontrati nelle terre d’Oriente aiutano a far conoscere ed amare fino in fondo un mondo, quello arabo, che invece oggi ci vorrebbero far odiare. Lui partiva sempre da Bari.
Bari che nella metà del nono secolo per lunghi venticinque anni fu sotto il potere dell’emiro Sawdàn. La passione per il mondo arabo di Rosario Simone forse nasce proprio lì. Chissà se mai si sarebbe iscritto alla Orientale di Napoli, chissà se mai avrebbe imparato l’arabo così bene da essere confuso per arabo dagli arabi, chissà se mai sarebbe andato a studiare in Iraq se fosse nato nel nord d’Italia lontano dal mar Mediterraneo.

L’ultimo dei suoi capitoli di viaggio è nell’Iraq di Saddam Hussein. Siamo agli inizi di luglio del 1990. I mondiali di calcio si giocano in Italia. Rosario Simone è al confine con l’Iraq. È l’ora della semifinale, quella vinta ai rigori dagli argentini. C’è un posto di blocco in un box. I militari hanno la Tv accesa. Non lo fanno entrare (era rigorosamente vietato) ma gli fanno vedere la partita da uno sportellino lasciato appositamente aperto. A Bari forse avrebbero fatto lo stesso. La legge si può sempre sorvolare.

In un Paese nordico non l’avrebbe mica vista quella partita. Il capitolo sull’Iraq ci riporta anche dentro il cuore di questo giornale. Simone arriva in Iraq proprio quando Saddam decide di invadere il Kuwait. Gli stranieri sono tutti costretti a non lasciare il Paese. Prigionieri in uno Stato in guerra con il mondo e con gli Usa di Bush senior. Qui il suo racconto diventa serrato, divertente. I tentativi dei genitori e degli amici di farlo ritornare in Italia (arrivavano a Baghdad delegazioni di politici che ripartivano con ostaggi italiani, ma non era mai il suo turno), le sue paure, il lavoro come interprete per la Cbs, la foto con Mohammed Alì, fino al giorno della sua liberazione per mano di Jean Marie Le Pen, che era andato in Iraq con una delegazione dell’eurodestra di cui faceva parte anche Gianfranco Fini.
Quando l’ambasciatore glielo comunicò si fece una doccia di quarantacinque minuti. Liberato dai fascisti, da non crederci. In quei mesi collaborava, grazie alla sua conoscenza dell’arabo, con tutti i giornalisti che si recavano a Baghdad. Si faceva pagare, ovviamente. Non volle però i soldi da Stefano Chiarini, che era lì per il «manifesto».