Se  la trasmissione della memoria storica è un valore (ed è discutibile che lo sia), la generazione politica degli anni ’70 ha clamorosamente mancato l’obiettivo. Tonnellate di carta stampata (ma molto meno pellicola almeno qui) hanno restituito un’immagine distorta e a volte rovesciata della realtà in più punti. Del «decennio rosso» è stata puntualmente esaltata la seconda metà, in realtà una parabola discendente, a scapito della fase montante 1968-73, quella che ha rovesciato come un guanto, dal basso, l’Italia. Le Brigate rosse, realtà trascurabile e ininfluente nel ciclo montante del conflitto operaio e sociale, si sono affermate nel ricordo viziato dalla propaganda, come il logico coronamento del conflitto esploso alla fine dei ’60, un po’ come se il più aspro e prolungato conflitto sociale nell’occidente del dopoguerra fosse solo un prologo all’avventura brigatista, che ne ha invece rappresentato il sanguinoso e fragoroso e tuttavia mesto epilogo.

 

 

La stessa operazione di sottile e spesso non inconsapevole falsificazione ha spinto a identificare «il 77» con l’anno di grazia 1977, dunque esclusivamente con i fatti di Roma e di Bologna, tagliando fuori le realtà in cui «il ’77» è arrivato prima, come a Milano nel 1976, o dopo, come a Torino nel 1979. Invece proprio in quelle metropoli operaie il ’77 si rivela in maniera più esplicita come l’insorgenza non solo di un (allora) nuovo movimento studentesco ma di una (tuttora) nuova composizione di classe, destinata a dilagare e a diventare norma nei decenni successivi.
La rete offre una possibilità corposa di intervenire su quelle distorsioni della memoria, di solito non inconsapevoli ma mirate e permesse proprio da un controllo massiccio sui media che la rete permette di incrinare.

 

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Così la lunga intervista realizzata da Officine Multimediali e dal suo portavoce Maurizio «Gibo» Gibertini a Chicco Funaro sull’esperienza milanese della rivista Rosso e del gruppo di militanti che le si era sedimentato intorno permette di allargare e approfondire la visuale sul ’77 anche per chi di quegli anni non può avere alcuna esperienza diretta. Il titolo, il pane, le rose … e il Dom Perignon riassume, adoperando un esproprio di lusso ricordato da Funaro, uno scarto abissale tra Rosso la sinistra, anche rivoluzionaria, tradizionale.

 

 

Rosso, in origine, era la rivista del Gruppo Gramsci di Milano: più sofisticata e colta della media delle pubblicazioni di movimento senza arrivare ai livelli spesso esoterici delle riviste più addottorate. Ma la vera esperienza di Rosso nasce nel ’74, quando l’area del Gramsci che aveva rifiutato l’adesione ad Avanguardia operaia si unì con alcuni militanti provenienti da Potere operaio, scioltosi l’anno prima, tra cui lo stesso Funaro.

 

 

È lui a illustrare la parabola di una rivista e di un gruppo capaci nei tre o quattro anni successivi di dare vita a una serie di sperimentazioni estreme a tutti i livelli: sul fronte organizzativo con il rifiuto dell’organizzazione «partitica» che era allora propria di tutte le organizzazioni di sinistra, parlamentari e no; sul fronte della militanza attiva con una serie di azioni che allora erano vissute come scioccanti anche da una parte del movimento, come gli espropri dei generi di lusso nei supermercati; sul fronte teorico, con la scoperta di una nuova forza lavoro operaia svincolata dalla catena di montaggio, sparsa sul territorio, priva di garanzie anche minime, tale dunque da rapportarsi con l’intero tessuto metropolitano come i fratelli maggiori con la fabbrica.

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Con la scoperta e l’esaltazione del «diritto al lusso» al posto del pauperismo moralistico, con il rifiuto dell’organizzazione gerarchica a fronte della struttura massimamente rigida, con l’attenzione privilegiata alla nuova composizione di classe invece dell’ossessione per i ceti operai più tradizionali, Rosso, e l’intera Autonomia che si muoveva sulla stessa lunghezza d’onda, erano l’opposto delle Br.
L’intervista a Funaro fa parte di una serie, Storie operaie organizzata da Officine Multimediali con l’obiettivo non solo di salvaguardare la memoria, ma anche di restituirne la verità sempre più dimenticata. Obiettivo ambizioso, non