uando, nel 2013, il coro dell’Armata Rossa comparve sul palco di Sanremo per accompagnare Toto Cutugno che cantava Un italiano vero, fu l’esempio perfetto di come certa musica è un legante potente, capace di mettere assieme i simboli di una rivoluzione comunista e la televisione italiana, l’ecumenismo di Fazio (che presentava quell’edizione di Sanremo) e l’ombra di Putin, le divise militari e le paillettes.
Quando, la mattina dello scorso 25 dicembre, l’aereo militare su cui viaggiava gran parte di quel coro si è inabissato nel mar Nero, è stata l’ennesima, lancinante perdita musicale di questo orribile 2016 che, fra gli altri, si è portato via Pierre Boulez, Bowie, Prince, Gato Barbieri, Keith Emerson, Greg Lake, Leonard Cohen.

 

 

Fondato nel 1928 da Alexander Vasilevic Alexandrov, autore anche dell’inno nazionale russo, il complesso Accademico di Coro e Ballo dell’Esercito Sovietico è composto da sole voci maschili e ha nel repertorio canti popolari, patriottico-militari, inni. Negli ultimi anni si è dato anche al pop occidentale, tant’è che, sempre nel 2013, fu cliccatissimo un video in cui una formazione di sei elementi interpreta Skyfall, successo di Adele. Sia allora che oggi, fa una certa tenerezza vedere quel tenore esile, quasi imberbe e pallido, la faccia da bambino, il cappello rigido più grande di lui che, in divisa, legge compunto le parole del testo inglese su una cartelletta. E crea un certo disorientamento vedere abbinato il rigore della disciplina, anche canora, con uno dei temi più celebri di una colonna sonora di James Bond.

 

 

In questi giorni, anche per elaborare il lutto, ho riascoltato alcuni dei brani più celebri del coro dell’Armata Rossa: l’Inno nazionale, l’Internazionale, Kalinka. Ogni volta mi assale un’emozione profonda, come se si risvegliasse un legame lancinante con qualcosa che sento far parte di me. Mi succede la stessa cosa quando sento una banda suonare. Mi successe la stessa cosa quando, a Dublino, vidi sfilare un gruppo di cornamuse suonate da uomini in kilt. Mi accade ogni volta che sento Mina cantare La banda. Ho cercato di capire perché e, dopo sommaria e breve analisi, sono arrivata alle seguenti conclusioni.

 

 

La musica che vuole farsi immediatamente capire, ascoltare e cantata sollecitando un senso di appartenenza comune, si muove su forme semplici e riconoscibili. Intervalli di terza e quinta, progressioni, ritmo facilmente scandibile.
Timbro e amalgama di voci e strumenti si reggono sempre su una base scura e calda, vibrante, qualcosa di molto simile a un abbraccio protettivo, che è poi la prima cosa che in genere conosce un bimbo.
I colpi bassi sono ammessi. Mettere insieme la sensibilità dell’arte vocale e il senso di ordine dato dalla divisa, depotenzia l’aggressività di quest’ultima fino a far sembrare un soldato un portatore di pace. D’altra parte, l’arma di quei coristi non è il fucile, ma la voce ed è la miglior operazione di marketing che un esercito possa fare.

 

 

I russi hanno il senso del teatro. Chi avesse voglia, provi a guardare su Youtube l’inizio della parata con la quale, il 9 maggio 2015, a Mosca si celebrò la vittoria sul nazismo. Piazza rossa, giornata di sole, reparti dell’esercito schierati in perfetto ordine geometrico, da un altoparlante una potente voce maschile presenta chi sfila. Parte una marcia, e un drappello di otto ufficiali inizia ad attraversare la piazza con passo marziale. Alzano in perfetta sincronia gambe e braccia, ma non sembrano stoccafissi.
Perché? Guardo meglio e vedo che l’alzata di gamba è accompagnata da un leggero scartamento del bacino. All’improvviso capisco. Hanno trasformato una marcia in una danza.

mariangela.mianiti@gmail.com