Concluso il suo mandato di presidente della Camera (1976-1979) e rifiutata l’ipotesi avanzata da Enrico Berlinguer di una conferma in quel ruolo, Pietro Ingrao tornò a dirigere il Centro riforma dello Stato (Crs). A noi giovani ricercatori spiegò: «Ho voglia di riprendere a studiare. Bisogna capire i mutamenti in corso». Era la stessa motivazione che aveva dato al gruppo dirigente del Pci e che venne accolta come una delle tante bizzarrie di Ingrao.

Iniziò una fase di ricerca del Crs di notevole rilievo. Questione europea, fine degli Stati nazionali, analisi delle esperienze socialiste in Scandinavia (l’esperienza svedese in primo luogo), il nuovo pacifismo, la crisi di appartenenza che iniziava a mordere su partito e sindacato furono gli assi del nostro lavoro. A cui si aggiungeva quello dei «nuovi diritti» e dei «nuovi beni» che reclamava un aggiornamento della Costituzione.

Apprendemmo a conoscere lo stile di lavoro di Ingrao: sempre presente con un bloc notes su cui prendere appunti, scrupolosità in ogni intervento, curiosità per il lavoro di ognuno. Dovevamo misurarci ogni volta con il suo rigore. Peppino Cotturri, Antonio Cantaro, Mario Telò, Massimo Brutti, Maria Luisa Boccia, Fabrizio Clementi, Fabio Giovannini e Mimmo Carrieri furono ottimi compagni di viaggio.

Ci sono stati anche episodi simpatici nel rapporto con Ingrao. Ad esempio, quando Patti Smith mobilitava migliaia di giovani ai suoi concerti, chiese a me e a Carmelo Ursino di procurargli alcuni 33 giri perché voleva capire il fenomeno. Il giorno dopo avergli consegnato i dischi tornò da noi e ci disse: «Vi ringrazio, ma potete segnalarmi qualche canzone più significativa delle altre? Non posso ascoltare tutto». Anche questo era Ingrao.

Nel caso di interventi particolarmente importanti, ci chiamava inoltre a consulto, A me capitò quando partì per la Spagna. In pochi giorni mi fece centinaia di domande sulla transizione democratica di quel paese dove ero stato più volte e mi chiese di scrivergli una nota accurata pure sui temi di maggiore attualità. L’ansia di lavorare per Ingrao non mi fece dormire per una notte. Non potevi deludere le sue aspettative. Tutto doveva essere preciso e chiaro, come quando concedeva le interviste e torturava il giornalista di turno.

Bisognerà poi ricostruire il tortuoso rapporto tra Ingrao e il manifesto.

Ricordo la sua delusione quando il giornale rifiutò un rapporto più stretto con il «fronte del no» alla svolta di Achille Occhetto. Venne in redazione a farci la proposta. Noi facemmo un’assemblea dove la proposta di Ingrao prese appena tre voti: Valentino Parlato, Stefano Chiarini e il mio. Ricordo anche la solitudine con cui lavorai con Ida Dominijanni all’inserto «Il cerchio quadrato» voluto da Ingrao (testata tipicamente ingraiana). Il giornale nel suo insieme oscillava tra amore e indifferenza nei confronti di Pietro che dopo tanti anni si era ricongiunto con il nostro gruppo.

Quell’atteggiamento era tipico anche di Lucio Magri, unico testimone della preparazione del famoso discorso di Ingrao all’XI congresso del Pci nel 1966. Per farlo arrabbiare bastava citare Ingrao. Io dicevo: «Mi piace l’Ingrao poeta e amante del cinema, quello che vorrebbe chiedere a ognuno la propria storia: da dove vieni? Dove vai?». Lucio replicava seccato: «Doveva fare quello, non occuparsi di politica. Non ne ha azzeccata una». Quando gli dicevi però che il suo libro «Il sarto di Ulm» rischiava di passare alla storia come il testo anti-ingraiano per eccellenza, in quanto elencava tutte le non scelte di Pietro, Magri reagiva incredulo: «Non è vero. Il mio libro, tutto sommato, gronda affetto per Ingrao e i suoi dubbi. Gli voglio bene».

Molti di noi sono stati divisi per decenni dallo stesso sentimento: ammirazione e stima per l’uomo Ingrao, perplessità sull’Ingrao politico. Il che non ci ha impedito di amare Pietro e di essere a modo nostro «ingraiani».