Esattamente cinquanta anni fa, all’Università Johns Hopkins di Baltimora, si svolgeva un simposio dal titolo un po’ criptico, «The Language of Criticism and the Science of Man», destinato a fare epoca. A esso presero parte i più noti intellettuali francesi come Jacques Derrida, Roland Barthes, Jacques Lacan, Tzvetan Todorov, Jean Hyppolite. Altri, che non poterono partire, inviarono testi e lettere. Ma cosa successe, a Baltimora, di così importante? Perché nel cinquantenario di quell’evento la Scuola Normale Superiore organizza un convegno ( su «Decostruzione o biopolitica?» (attenzione «o» e non «e»)? Come ricorda François Cusset, nella più informata ricostruzione della vicenda (French Theory, il Saggiatore), tale incontro dava origine a quell’insieme di pratiche teoriche e scritture che presto avrebbe assunto il nome di «French Theory», includendo al proprio interno anche autori come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard.

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Il filosofo Roberto Esposito

Nuove egemonie

È difficile sottovalutare il rilievo della cosa. In breve tempo un gruppetto di filosofi francesi, certo già noti nel loro Paese, diventava la punta dell’intera filosofia continentale – vere e proprie star, su cui da Sydney a Buenos Aires, da Toronto e Tokyo si sono scritti libri, saggi, fascicoli di rivista, mentre negli States si giravano film e documuntari (tre soltanto su Derrida). L’impatto della svolta in atto era straordinario. Esso modificava non solamente il panorama culturale americano, influenzando gli studi letterari, postcoloniali, di genere, ma mutava i rapporti di egemonia nella cultura di sinistra sul piano internazionale. All’influenza fino allora esercitata dalla scuola di Francoforte – da Adorno e soprattutto da Marcuse, leader spirituale del movimento studentesco mondiale – si sostituiva velocemente quella dei francesi. Nozioni come «postmoderno», coniata da Lyotard o «decostruzione», elaborata da Derrida, guadagnavano rapidamente terreno sulla «teoria critica» dei francofortesi.

A modificarsi era proprio il rapporto tra questi due termini. Se a Francoforte prevaleva l’elemento della «critica», i francesi insistevano soprattutto sulla «teoria», scaricandola di potenziale antagonistico e conferendole un significato più neutrale. La critica, per i francesi, è una nozione ancora metafisica, perché presuppone quella distanza tra soggetto e oggetto che essi contestano. Lo smontaggio delle dicotomie della tradizione metafisica prevede la reversibilità tra opposti – dentro e fuori, testo e contesto, ripetizione e differenza – a favore di un terzo termine che ne rende indecidibile il rapporto. A tale tendenza alla neutralizzazione del conflitto si è aggiunta, soprattutto nella versione americana, una accentuazione dell’elemento testuale che ha finito per conferire alla «French Theory» una tonalità fondamentalmente letteraria.

Tutto ciò non diminuisce in nessun modo il rilievo filosofico di autori troppo originali e differenziati per essere ricondotti a un’unica grammatica concettuale. Anzi il rischio maggiore, nell’interpretazione della «French Theory», è proprio l’indebita omologazione tra paradigmi marcatamente diversi, come sono in particolare quelli di Derrida e di Foucault. Se il primo resta sostanzialmente nell’orizzonte di Heidegger – nonostante le distanze che assume nei suoi confronti – il secondo rimanda piuttosto alla genealogia di Nietzsche. La differenza assai netta è rimarcata da Jean-Luc Nancy, in particolare ne Le differenze parallele (Ombre Corte). In verità egli mette a confronto Derrida non con tanto con Foucault, quanto con Deleuze. Tuttavia, considerata l’affinità di ispirazione di questi ultimi, l’esito ermeneutico non cambia, come Nancy lascia intendere congiungendoli in una comune tassonomia «francese», opposta a quella, «tedesca», di Derrida, in cui egli stesso si inscrive.

Se a capo della linea francese Nancy pone Bergson – ma avrebbe potuto fare altrettanto bene il nome di Nietzsche – l’albero genealogico tedesco, rappresentato da Derrida, prende le mosse dall’ontologia di Heidegger e dalla fenomenologia, con tutte le ovvie distinzioni. Mentre la filosofia di Derrida resta nell’orizzonte dell’essere (assente), Deleuze e Foucault praticano un pensiero del divenire. Se quella attivata da Derrida, non diversamente dall’analitica della finitudine di Heidegger, è una riflessione sull’origine e sulla mortalità, Deleuze e Foucault praticano un pensiero della mutazione distesa nel flusso di un divenire che non incrocia né l’essere né la sua mancanza. Non a caso Nancy arriva a sostenere, con quella che oggi appare non più di una boutade, che Foucault non sia un filosofo, ma solo uno storico.

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Del resto già la lunga, ed aspra, recensione di Derrida alla Storia della follia di Foucault aveva aperto tra i due una frattura, filosofica ma anche personale, che non si sarebbe più rimarginata. A separare i due autori, dietro una diversa interpretazione del passo delle Meditazioni di Cartesio sul sogno e le follia, era proprio il rapporto tra tempo e concetto, essere e divenire, storia e filosofia. Ma anche, tra il pensiero e il suo esterno. Esiste qualcosa di esterno al pensiero, come vuole Foucault, oppure il fuori del pensiero è lo scarto differenziale che lo taglia dall’interno, duplicandolo infinitamente, come ritiene Derrida? In termini «politici», è possibile decisione – tra follia e ragione, potere e resistenza, identità e differenza – o essi si sovrappongono in un circuito senza sbocco? Al cuore della filosofia, e anche della vita, vi è l’indecidibile – come ritiene Derrida – o il conflitto tra forze contrapposte, come pensa Foucault? In ultima analisi l’ontologia di Heidegger o la genealogia di Nietzsche?

Naturalmente neanche Derrida intende sottrarre il pensiero alla storicità. La stessa différance coincide in ultima analisi con essa. Tuttavia la storicità, come è pensata da Derrida, pare non avere nessun rapporto con la storia dei fatti e anzi si distanzia da essi. Come per Heidegger essa rimanda alla differenza dell’essere, non al movimento del divenire. Per Foucault, di contro, la follia, tutt’altro che porsi all’interno della ragione, si accampa fuori dei suoi confini, in una modalità che sfugge alla sua presa. In questo senso essa non è il margine che la ragione porta dentro di sé come una marca originaria, ma un evento storicamente determinato, produttivo di effetti altrettanto determinati, alla cui ricerca genealogica la Storia della follia è dedicata. È la linea di frattura che separa un pensiero del fuori da un pensiero della differenza. O anche – come sarà chiaro quando la ricerca di Foucault si orienterà all’implicazione tra politica e vita biologica – lo scarto tra decostruzione e biopolitica.

L’«Italian Thought» – vale a dire quel vettore, aperto negli anni Sessanta dall’operaismo italiano nelle sue diverse espressioni, ma che assume consapevolezza di sé solo trenta anni dopo – sceglie la biopolitica rispetto alla decostruzione, naturalemente senza dimenticare la straordinaria avventura intellettuale di Derrida. Resta il fatto che il pensiero italiano contemporaneo non nasce dallo sviluppo, ma dalla crisi interna della filosofia francese, che esso stesso contribuisce ad approfondire. Del resto un pensiero fin dalle sue lontane origini intensamente politico, come quello italiano, non avrebbe potuto fare diversamente. L’«Italian Thought» è un pensiero delle forze, non delle forme, della vita non della scrittura, dell’immanenza non della differenza ontologica.

La svolta linguistica

Se la decostruzione, elaborata da Derrida in un quadro di derivazione heideggeriana, appartiene ancora a quanto è stato definito «linguistic turn», la biopolitica rimanda piuttosto a un regime centrato intorno all’emergenza della vita come punto di riferimento di ogni altro linguaggio. Naturalmente, come sempre avviene in casi simili, solo ex post è possibile fissare confini stabili tra prospettive che, nel loro sviluppo, trovano più di un punto di intersezione: come il linguaggio è pur sempre una funzione biologica, così la vita umana ha di per sé una conformazione linguistica. Ma ciò non esclude una disomogeneità di fondo che impedisce di integrare queste due pieghe del sapere contemporaneo nello stesso orizzonte di senso.

Essa era naturalmente avvertita da pensatori di certo consapevoli dei propri strumenti teorici e intenzionati a difenderli contro altri concorrenti. Ciò spiega l’atteggiamento insolitamente polemico di Derrida verso autori e categorie rispetto ai quali avvertiva uno scarto semantico insuperabile. Una teoria del linguaggio e della scrittura, come la sua, non poteva sintonizzarsi col nuovo pensiero della vita che prima Foucault e Deleuze e poi i filosofi italiani spingevano sempre più intensamente al centro del dibattito internazionale. È inutile dire che ciò non riduce in nulla la rilevanza di uno dei più grandi filosofi del Novecento, quale è stato Derrida. Ma è appunto la fedeltà nei suoi confronti a impedirci di sfumare la distanza che lo ha sempre allontanato da un filosofo non meno grande, quale è stato Foucault.