Si avvia a conclusione il megaprogetto del Css udinese in occasione del quarantennale dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini, e certo i risultati non mancheranno di avere eco sulle scene italiane. Dopo le intense prove che sull’argomento hanno dato artisti come Giuseppe Battiston, Virgilio Sieni o Luigi Lo Cascio, arriva la performance sorprendente di Ricci e Forte. PPP Ultimo inventario prima di liquidazione (che arriverà in primavera all’Argentina di Roma, mentre attualmente la compagnia è al Piccolo di Milano con la loro personalissima rivisitazione di Orestea) va in scena dopo che già i due artisti avevano elaborato per il medesimo progetto La ramificazione del pidocchio.
Ora però lo spettacolo sembra assumere un ritmo e una sintassi piuttosto diversi dal solito, che potrebbero addirittura «deludere» i fan del loro coté più fracassone o «modaiolo». Qui i discorsi si fanno seri (e non necessariamente noiosi) perché l’inventario che Ricci e Forte approntano è qualcosa che riguarda indistintamente tutti: presi dalle parlate che si odono in treno o dai giornali bon ton, sono i discorsi che tutti abbiamo nelle orecchie o nello sguardo. Pubblicità televisive e scadenze sociali, manie collettive e privatissime esagerazioni che costituiscono ormai l’humus massivo di una degenerazione già arrivata al suo stadio più avanzato.

Un uomo e cinque donne in scena. Lui è Giuseppe Sartori che è il viso abituale del teatro di Ricci e Forte, come Anna Gualdo che capeggia un insieme di «bambole meccaniche», cinque donne di varia nazionalità (due francesi e una portoghese scelte alla Ecole des Maitres tenuta appunto dal regista e dal drammaturgo). La scena, firmata da Francesco Ghisu, è una distesa di copertoni usati, ingrigiti dalla polvere e distesi davanti a un fondale che le luci fanno passare da un abbagliante giallo zabaione ad altri toni acidi o rabbuiati. Una importanza particolare hanno i movimenti delle donne, passi sincopati che possono andare dal tattico al seduttivo, dall’aggressivo al bambolesco che le fa stendere su quelle ruote dismesse come ninfette al sole.

Un universo drammatico, anche se è scemata via la violenza più vistosa di tanti altri spettacoli (fatta spesso di schiaffoni e di lividi), sostituita da una atmosfera impestata e magari anche letteralmente violata, come una certa disposizione delle vecchie ruote lascia trasparire. Francesco Manetti ha preso questa volta il posto del loro abituale ottimo trainer Marco Angelilli,e quei corpi di donna, tra spasmi e ancheggiamenti, tra sorrisi eccessivi e smorfie gridate, ci portano davvero sotto il grado zero della civiltà. Gianluca Falaschi le ha abbigliate su quel crinale di gusto tra i ’50 e i ’60 sinuoso di gonne attillate e redingote, che può ancheggiare sulla Stessa spiaggia stesso mare di Piero Focaccia o commuoversi pensosamente sui Cerchi nell’acqua di Françoise Hardy. Gli anni del grande Pasolini: quello dei romanzi romani e del primo cinema, straziante come gli occhi profondi di Franco Citti o il grido di Mamma Roma Magnani. Ma anche l’occhio lucido che andava a indagare sulla sessualità degli italiani, facendone Comizi d’amore di cui ad un tratto ascoltiamo il sonoro.
Con sapienza contenuta e disinvolta, Ricci e Forte ci conducono sulla spiaggia di Ostia, ma rovesciata allegramente nel primo bagno fuori stagione delle ragazze, quasi delle Ciangottini felliniane. E l’orrore del corpo schiacciato dalla Giulietta viene anch’esso rovesciato negli pneumatici che sono loro a macchiarsi passando sul corpo di Sartori infangato di vernice. Eppure c’è voglia di energia positiva, come quando una danza delle ragazze su una canzone tedesca d’epoca (Einmal ist keinmal, una volta e come niente) squarcia una visione che vagheggia Bausch. E c’è voglia, se non di assolversi, almeno di capirsi meglio in profondità, frugando nei bottoni del Peer Gynt di Ibsen.

C’è un’infanzia collettiva che è in qualche modo purezza: rispetto alla banalità del male quotidiano dei nostri giorni, e come consapevolezza di quella età felice e lontana in cui omologazione e globalizzazione erano fantasmi lontani, pericoli incombenti, che nessuno poteva immaginare si facessero assoluti; a parte PPP naturalmente.
Ora questa consapevolezza dell’oggi sembra spingere Ricci e Forte a questa loro nuova fase teatrale: lontana dagli eccessi esibiti, quasi pudica nello scoprire i ricordi. Una fase che, come si diceva, potrà deludere qualche spettatore esagitato, ma certo ritaglia agli autori una posizione di rispetto e onestà teatrale che possono farsi patrimonio comune.
Un Treno pasoliniano è invece partito nei locali sottostanti lo stesso teatro del Palamostre udinese.

Proprio nei giorni di Ricci e Forte, si è visto il primo episodio (la versione integrale arriverà a marzo), o meglio la prima stazione. Che è quella di Casarsa «della partenza», non certo della delizia. Un gruppo di attori (Emanuele Carucci Viterbi, Gabriele Benedetti, Paolo Fagiolo e altri giovanissimi) ci conducono tra un bicchiere di vino e sedie disposte come fossero scompartimenti ferroviari, a imbarcarci ad un viaggio con Pasolini, che Rita Maffei ha disegnato e messo in scena. La partenza (con la fuga del poeta e della madre da un Friuli omofobo e anticomunista) è stata promettente. Non c’è che da aspettare il percorso e l’arrivo.