Evgeny Morozov non ha dubbi sul fatto che il capitalismo contemporaneo sia sull’orlo di una nuova «grande trasformazione». Il modello economico vincente – quello che in ambito anglosassone viene chiamato platform capitalism e che ha come simboli Google, Facebook, Amazon – ha poggiato su basi tanto solide quanto semplici: cedi i tuoi dati personali in cambio di servizi gratuiti. Miliardi di uomini e donne sono connessi alla Rete in base a questo «scambio», ma i costi, per le imprese, cominciano ad essere molto alti. Investimenti nello sviluppo di software sempre più potenti e sofisticati, in intelligenza artificiale e per la gestione dei data base – hanno bisogno di tanta energia elettrica – fanno sì che i ricavati nella vendita di spazi pubblicitari erodano inevitabilmente i profitti.

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«Nel prossimo futuro – spiega Morozov – quelle stesse imprese, diventate rapidamente società globali, dovranno inventarsi qualcosa per far entrare molti più soldi nelle loro casse. Questa è, prevedo, la grande trasformazione che vivremo negli anni a venire. Il capitalismo non finirà, sia ben chiaro, ma muterà forme e business model. Stiamo assistendo all’esaurirsi della spinta propulsiva del capitalismo basato su finanza, assicurazioni e speculazione immobiliare. Inviterei a guardare con più attenzione a quanto fanno imprese come Cisco, Simens e altre che non sono al centro dei riflettori mediatici. Forniscono infrastrutture, ma anche le tecnologie adeguate alle smart city, le città intelligenti, ultima frontiera di una mercificazione non solo del welfare state, ma anche di altri aspetti della vita sociale: la casa, la mobilità, l’accesso alla conoscenza e al sapere».

Evgeny Morozov ha un profilo intellettuale eccentrico rispetto a molti altri studiosi della network culture. Cresciuto in Bielorussia ha visto crollare il socialismo reale e da attivista ha preso parte alle mobilitazioni contro gli oligarchi saliti al potere dopo la fine del regime del partito unico. È diventato un giornalista facendo esperienza nei siti informativi nati dentro la Rete agli inizi degli anni Novanta. Poi, la scelta di trasferirsi negli Stati Uniti, dove è diventando ben presto un ricercatore.

Il suo primo libro evidenzia – sin dal titolo – la convinzione che l’idea di Internet come spazio e strumento di libertà illimitate dovesse chinarsi alle leggi dell’economia. Inoltre, nel web non c’erano solo imprese che imponevano la loro logica commerciale, ma anche governi nazionali che utilizzavano la Rete per controllare, a fini repressivi, la comunicazione on line. L’ingenuità della Rete, questo il titolo del volume pubblicato in Italia da Codice edizione, è diventato un best-seller che ha fatto diventare l’autore un opinion-maker molto letto, dentro e fuori il web. Le sue accuse contro la «tecnoutopia» si sono arricchite di altri saggi, colpendo uno dei simboli dell’«era digitale», Steve Jobs (Contro Steve Jobs, Codice edizione), per poi affinare il suo j’accuse contro il determinismo tecnologico con Internet non salverà il mondo (Mondadori). Ma è con Silicon Valley. I padroni del silicio (Codice edizione) che Morozov ha puntato l’indice contro il grande rimosso della network culture, la proprietà privata.

Le grandi imprese della rete si sono appropriate dei nostri dati personali, li usano per elaborarli e venderli: occorre, scrive provocatoriamente, espropriare gli espropriatori, facendo il verso a un antico motto della cultura comunista novecentesca. Di questo, Morozov sorride. Sa che la sua è una provocazione, ma è convinto, da buon libertario, che non occorra chiudere gli occhi su quanto sia cambiato il capitalismo contemporaneo. Ieri era ospite a Roma del Salone dell’editoria sociale, dove ha partecipato a un seminario con Giuliano Battiston – firma conosciuta dai lettori del manifesto – e Francesca Bria, italiana diventata in Inghilterra un’apprezzata e ascoltata studiosa di innovazione tecnologica e, da pochi mesi, consulente della sindaca di Barcellona Ada Colau.

L’intervista con Morozov parte proprio dal nodo dei Big Data.

Il suo libro sui «Signori di Silicon Valley» si chiudeva quasi con la richiesta di una socializzazione dei data base. È passato del tempo, eppure i Big data sembrano un moloch che si autoalimenta. Che ne pensa?

Non bisogna farsi ipnotizzare dalla retorica dei Big data come unico settore in crescita. Ma soprattutto non bisogna fermarsi alla denuncia della società del controllo. Limitarsi a chiedere il rispetto del diritto alla privacy e della libertà di espressione messa in discussione da alcune leggi è indice di debolezza politica. Anzi, alla lunga, produce una spoliticizzazione della critica ai padroni della Rete. Alla base della raccolta di dati ci sono fibra ottica, server, software: elementi spesso dimenticati. Il nodo da sciogliere è come immaginare una forma di controllo democratico su di esse.

Molti analisti parlano di un futuro senza lavoro umano. Un’esagerazione, ma è certo che l’automazione coinvolgerà lavori anche intellettuali, con complementare aumento della disoccupazione. C’è chi propone che le imprese restituiscano, attraverso tasse o altre forme di prelievo, parte della ricchezza accumulata con la mercificazione dei dati individuali. Una massa monetaria che può essere destinata ai sussidi di disoccupazione per chi perde il lavoro. Sono d’accordo, ma questo è solo uno degli interventi necessari. Fino a quando non verrà affrontato il problema nella sua globalità ogni intervento rimarrà limitato nel tempo e nello spazio.

C’è chi propone di partire dal basso – i movimenti sociali – per poi arrivare in alto, la gestione del potere….

In Europa sento parlare di «città ribelli» che pongono con forza questo tema. Ben vengano, ma se rimangono episodi limitati rimarranno solo testimonianze. Ma poi dal livello locale, urbano, municipale bisogna passare a un livello macro. L’Unione europea poteva essere il contesto dove sperimentare forme di regolazione e riappropriazione a livello continentale, perché la sovranità digitale deve fare i conti con una cloud computing che ignora i confini nazionali. Un conto è far tornare pubblica la gestione dell’acqua, più difficile è immaginare cosa significa riappropriarsi delle infrastrutture tecnologiche.

L’Europa non gode di buona salute e ha dato spesso una brutta prova delle sue capacità politiche. Rimane il livello nazionale. So che suscita diffidenza, ma questo è un piano di iniziativa politica che non va abbandonato. Occorre dunque muoversi su più piani – locale, nazionale, sovranazionale – sapendo che la Rete è un fattore ormai usuale della vita sociale, economica e politica. Le piattaforme sviluppate continueranno a funzionare. Occorre quindi elaborare iniziative di buona qualità politica.

Una conclusione del suo ragionamento è immaginare lo sviluppo di una sharing economy alternativa….

Sia chiaro: preferisco le imprese cooperative a quelle private, ma non sono la soluzione del problema. Né voglio demonizzare Uber e Airbnb: spesso è un modo per fronteggiare la mancanza di reddito e di lavoro. Il vostro premier Matteo Renzi spesso si comporta come il portavoce delle lobby digitali. Definisce progetti, piani di sviluppo funzionali allo sviluppo di un capitalismo basato sulla Rete. Non penso che si possano contrastare solo a livello cittadino. Serve immaginazione sociale, politica, economica.

Il leader laburista inglese Jeremy Corbin ha mostrato sensibilità e attenzione al problema della proprietà privata nelle infrastrutture, ma poi si è limitato a proposte dal sapore keynesiano che non riesce a mobilitare grandi movimenti. C’è un’espressione forte per indicare lo stato di cose presenti: capitalismo predatorio. Come rapportarci ad esso? È questa la domanda che attende una risposta, non c’è da perdere molto altro tempo.