Nei musei pubblici e nelle gallerie private vediamo sempre scritto: si prega di non toccare. Se l’invito però si riferisce a una mostra intitolata nolimetangere – opere incompiute, allora assume inevitabilmente un significato al tempo stesso rafforzativo in superficie e enunciativo in profondità. Non è un caso che Lamberto Lambertini, poliedrico artista napoletano, solo ora dopo essersi misurato periodicamente anche con la pittura a partire dagli anni ’70, si è deciso a mostrare una parte delle sue opere in uno spazio del centro storico di Napoli (tra via Costantinopoli e piazza Bellini), il Nea diretto con eclettismo e multiformità culturale da Luigi Solito (fino al 30 luglio).

Chi conosce Lamberto sa che il suo è un percorso variegato e solitario fatto di regie teatrali e cinematografiche, scrittura di testi per la radio e per il teatro, una monografia sul principe di Sansevero, lavori per Peppe Barra, racconti, pratica audiovisiva con sperimentazione video ottimizzando piccoli budget per grandi progetti (ha da poco finito di girare il Paradiso completando dopo l’Inferno e il Purgatorio la lettura integrale della Divina Commedia In viaggio con Dante, progetto realizzato con la Società Dante Alighieri). E quindi attraversa le varie forme espressive con lo spirito di un work in progress intellettuale, con l’atteggiamento di chi considera ogni produzione come una fase necessaria di un’evoluzione naturale (interiore e artistica).

Per questo si dedica all’una o all’altra espressione in maniera irregolare e non sistematica, quando può, quando sente, quando libera la creatività e lo sguardo visionario. Nel campo strettamente pittorico Lambertini non è uno di quegli artisti-arrivisti (spesso ignoranti) che cercano di organizzare una mostra a tutti i costi per avere visibilità e possibilmente mercato, è un artista da bottega rinascimentale, un intellettuale che si esprime anche con il pennello e i colori e rivendica proprio il transitorio scorrimento del flusso artistico, lo slittamento continuo da un piano all’altro, la voglia di non fare niente di definitivo e compiuto per lasciare sempre aperte attese e prospettive.

Insomma è anche «il fascino dell’incompiuto». E mentre è in corso la mostra Unfinished: Thoughts Left Visible al nuovissimo Met Breuer di New York, dedicato all’arte moderna e contemporanea, che raggruppa circa 200 opere d’arte lasciate a metà o solo abbozzate, Lambertini propone in piccolo la sua indagine sull’arte non finita. E quasi dichiara con il versante pittorico della sua produzione, la sua vocazione all’infinitezza, il fatto di avere nel dna l’incompletezza, l’incompiutezza. Ma sono sono concetti-teoremi diversi quello dell’incompletezza formulato dal matematico Kurt Gödel, destinato ad avere influenze sul piano filosofico, e quello dell’incompiutezza di Essere e tempo di Heidegger, ripreso poi da Gadamer e Lévinas. Insomma l’in-finito/incompiuto/incompleto Lambertini ora mostra le sue opere (14 selezionate sulle molte prodotte) per mostrare in realtà l’essenza artistica-filosofica del suo percorso, per esibire visivamente la convinzione della completezza/compiutezza come un limite.

Il commento dell’autore a uno dei quadri esposti è illuminante come introduzione alla mostra: «Qualche anno fa il museo Filangieri mi chiede un quadro per un asta di sostegno. Parto da un fotogramma: la Deneuve in Belle de jour trascinata dallo stupratore… ’nolimentagere’, mi viene la storia da sempre innamorato della favola di Gesù risorto che incontra per prima, la Maddalena. Lei non lo riconosce, lo scambia per l’ortolano, il sepolcro è vuoto, chiede «dove avete messo il corpo?».
Gesù la chiama: «Maria!». Lei, dalla voce, quella voce, lo riconosce e si getta ai suoi piedi: «maestro!». Il risorto la frena: «Noli me tangere!». Non mi toccare, traduce la chiesa, non voler toccarmi, non pensare di poterlo fare, sarebbe più esatto, ma nel greco in cui Giovanni scrisse il suo vangelo, c’è un altro significato che adotto: non mi trattenere, lasciami andare, non è più come prima, sono risorto. Il mio è un racconto, più che una mostra, le molte diverse facce della Maddalena, della donna, adolescente, amante, moglie, madre, puttana».

Poi spiega: « L’incompiuto in sé comporta apertura. Siamo così motivati a interrogarci di quello che manca e di quello che c’è. Perché l’opera, per sua stessa natura, si è costruita lungo due linee apparentemente inconciliabili. Una doppia visione che amplifica le potenzialità del non-finito, producendo ulteriore apertura. Un circolo senza fine per tentare di accogliere la relatività del reale. Una doppia narrazione.

Due voci, l’artista e la modella, l’uomo e la sua amata, una trasparente e decifrabile, l’altra insondabile e oscura».
Nel programma della mostra che comprende uno scritto di tanti anni fa di Emilio Villa, un intervento di Antonio Monroy, l’incipit di un romanzo (anche questo incompiuto), nel presentarla Gianni Nappa scrive « Donne e piaceri, come pensieri vissuti alla ricerca del favoloso, e sempre in una dimensione di unicità senza ricordi in cui l’artista interviene per strati della conoscenza, che offrono la chiave per affrontare la leggenda. I colori che pure nella dimensione della materia intervengono come velo di un desiderio inespresso, sono parte di una ultima produzione dove Lambertini non detta né spazio né tempo, e nell’incompiuta dimensione del non toccare, si produce un atto d’amore verso se e gli altri. Il dono lo accettiamo, colmi di infinito, avvolti dai profumi al sandalo e dalla luce di un patrimonio immaginifico di cui l’artista è artefice».

Dalla Mostra si esce con la strana sensazione di un’operazione postmoderna nella sostanza ( i quadri a tempera con il motivo ricorrente della piovra, del polpo che accompagna le varie immagini delle donne in stile collage alla Rotella, con echi anche delle Erinni e della mitologia greca) ma classica nella forma iconografica. Immagini classiche, antiche che rimbalzano da quegli strati che s’immagina di scoprire dalle macchie come se le si stesse grattando, scrostando.