Boris Nemtsov l’ho conosciuto a una cena in casa di un dirigente di Yabloko, il parito liberal riformista guidato da Yavlinski. Ero in Russia per le presidenziali del maggio 2000 che portarono Vladimir Putin al Cremlino. Per il paese iniziava una nuova era, post-Yeltsin. L’ex agente del Kgb sarebbe diventato il «piccolo padre» del secolo XXI, al comando della Russia per un tempo probabilmente più lungo di quanto Stalin dominò l’Urss.

Per molti versi, Putin era l’anti-Nemtsov. Quest’ultimo, alla fine degli anni ’90 del secolo scorso – ero corrispondente a Mosca- era considerato il delfino di Yeltsin. Aveva dato buona prova di idee riformatrici a Nizhni Novgorod, era della cordata dei riformatori liberisti alla Gaidar, affiliati alla scuola di Chicago, responsabili delle privatizzazioni selvagge che smembrarono l’Urss consegnando gli assets più succulenti a «oligarchi» e mafie di varia natura.

Ben visto dall’Occidente e con un carisma che non lo fece rimanere solo all’ombra di Yeltsin. Il contrario di Putin, la cui cordata però si rivelò vincente; era del resto, anche l’unica che poteva garantire un controllo della Russia ed esprimerne la «pancia» con una linea nazionalista e (pan)slavofila – gradita anche alla Chiesa orotodossa – e dunque garantire a Yeltsin un’onorevole ritirata dal potere. In sostanza, di salvare la pelle e le sostanze, purchè, lasciasse il posto a Putin.

Dopo il colossale fallimento della politica liberal-liberista sfociato nella tremenda crisi economica del 1998, la popolarità di Yeltsin e del suo gruppo precipitò. E, praticamente dal nulla, Putin ricevette l’incarico di capo del governo e la «patente» di successore. Nemtsov era impegnato a contrastare il potere accentratore del nuovo zar, specie per quanto riguarda la seconda guerra in Cecenia che Putin aveva scatenato come asse portante della politica imperiale e nazional-slavofila («Li staneremo anche nel cesso» aveva minacciato riferendosi a supposti terroristi ceceni) e che si era appena conclusa (marzo 2000) con la conquista di Grozni, la capitale della Cecenia: una vittoria costata molto sangue ma che aveva costituito la miglior propaganda per vincere le presidenziali.

Tanta radicalità nella denuncia di una guerra che era stata sì il trampolino di lancio di Putin, ma che aveva comunque l’appoggio anche di buona parte dello schieramento democratico, mi colpì.

Nemtsov non era ancora un leader dell’opposizione al nuovo zar, ma dimostrava che, a differenza di Yeltsin non aveva accettato di mettere da parte le sue idee per il quieto vivere. Anzi, nel corso della cena citò un serie di personaggi, da Pushkin a Lermontov, da Sakharov a Solzhenitsin, che, seppur da diversi punti di vista politici, rappresentano l’anima (dusha) russa e l’anelito libertario.

Proprio questa radicalità negli ultimi tempi l’aveva sfoggiata nella denuncia della «natura mafiosa» del potere del presidente-zar e nella lotta contro l’impegno russo nella guerra nell’est dell’Ucraina. Emigrate all’estero le poche figure di spicco dell’opposizione liberale a Putin, l’ex oligarca Khodorkovski in Svizzera, l’ex campione di scacchi Kasparov negli Usa, Nemtsov era l’avversario di punta di Putin.

Non credo avesse più possibilità di Kasparov e Khodorkovski di agglutinare un’opposizione efficace a un presidente che – nonostante le sanzioni occidentali – gode di tanta popolarità e di un fortissimo controllo politico e mediatico del paese. Ma guardando le fotografie delle persone in fila a Mosca per rendere omaggio alla salma di Nemtsov , fissandomi sui volti e le espressioni di chi manifesta «io sono Boris», mi tornano in mente i riferimenti allo «spirito» russo, a quell’insaziabile desiderio di libertà e di impegno, dai decabristi in poi, cui Nemtsov faceva riferimento.