È molto difficile, verrebbe da dire quasi impossibile, cercare di raccontare una passione dopo che questa si è spenta non per esaurimento ma perché la persona che l’incarnava è scomparsa.
Le parole possono ricostruire dei fatti, mettere in fila alcuni singoli ricordi, ma difficilmente si riesce a restituire con la pienezza emotiva una scelta di vita così radicale da essere dedicata ad una sola cosa, in questo caso al teatro. Quest’ultimo numero di Panta dedicato a Franco Quadri è appena uscito nelle librerie, riesce nel compito di metterci sulle tracce di quella passione, di farci ripercorrere i tanti sentieri intrapresi da una personalità così inquieta e curiosa. Verrebbe da definirlo un numero politico di questa rivista mai planata sull’ovvio, in cui si cerca di raccontare cosa significa dedicare una vita intera alla passione di fare il critico.
Per qualcuno oggi può sembrare qualcosa di astruso, in un’epoca in cui certamente la passione per la critica sembra qualcosa di irrimediabilmente passato. Tutti pensano di poter essere i critici di sé stessi, i postatori del proprio gusto, le badesse dalla twittata isterica, in una ipertrofia che sta già dando tutti i suoi risultati. Ma basta rivolgersi un pizzico indietro e riprendere gli articoli di Gramsci o di Gobetti dedicati al teatro agli inizi delle loro vite intellettuali per capire quanto è stata forte, leggendaria addirittura, l’idea di una militanza che non significava leggere, vedere o ascoltare tutto, come si pensa oggi, ma scegliere e vivere per una parte, pensando che un giorno quella parte sarà il tutto.
Ecco, Franco Quadri, nato a Milano nel 1936, ha sicuramente fatto sua una concezione della critica che non si esaurisce nell’occasione delle recensioni, ma diventa operativa, cerca di emergere e conquistare spazio, in modo che lo sguardo del pubblico possa venirne contaminato e quindi cambiato. Una critica che si «sporca le mani» come lui e pochi altri cercano di imporre a partire dagli anni sessanta, in un paese abituato ai taciti accordi, alle intese tra famigli, oppure alle torri d’avorio da cui osservare e giudicare forti di una distanza irreale, improduttiva. In quegli anni in cui dall’America, con il Living in testa, giungono grandi slanci a superare le barriere tra palcoscenico e platea, tra attori e spettatori, tra registi e attori, anche la critica è destinata a diventare altro da quello che era stata fino a quel punto. Il resoconto di quanto si dice in scena e non di ciò che succede. E forse ciò aveva anche un legame non occasionale con il ritardo con cui la regia era arrivata nel nostro paese.
Già su Sipario negli anni sessanta Quadri cerca di imprimere un passo diverso al lavoro critico, dedicando attenzione a quei fermenti nuovi che anche in Italia un po’ per caso si andavano manifestando. Un lavoro che culmina con il doppio numero dedicato al teatro americano che diverrà sotto diversi aspetti il punto di riferimento di un teatro nuovo che anziché sulla parola fa affidamento sul corpo, sull’immagine, sul suono. Dopo Sipario le esperienze che si potrebbero ricordare sono tante, sicuramente troppe per poter essere raccontate qui. Si potrebbe partire dal convegno di Ivrea del ’67, La Biennale Teatro, l’Ecole des Maitres, Riccione teatro, i tanti libri, scritti, curati, ideati. All’inizio degli anni novanta, quando chi scrive ha iniziato a vedere e a cercare di capire, erano poche le figure o i luoghi a cui si poteva guardare cercando di ritrovare quella matrice che aveva dato il via negli anni sessanta e settanta ad un rinnovamento radicale del cinema e del teatro in Italia. Alcuni erano già morti, altri si erano voltati verso lidi più redditizi e rassicuranti, altri ancora cercavano di fare della propria fedeltà al tempo che fu una sorta di religione dei reduci. Tutto diviso a compartimenti stagni. Ognuno con i propri registi preferiti, i propri amici, la propria rivista. L’irregolarità che aveva fecondato dagli anni sessanta il panorama culturale italiano creando esempi di indisciplina a coraggio era rimasta appannaggio di pochissimi. E tra questi c’era sicuramente Quadri. Ad accrescerne la figura c’era oltretutto il ricordo persistente dell’omaggio che gli aveva fatto Bernardo Bertolucci in Il Conformista, dando il suo cognome al personaggio del professore antifascista esiliato a Parigi che sarà giustiziato dal protagonista. C’era poi quella incredibile «non-introduzione» inserita all’inizio del doppio volume dedicato a L’avanguardia teatrale in Italia 1960-1976, pubblicato da Einaudi.
Tutto quel magmatico, incredibile pulsare che improvvisamente aveva invaso non solo il teatro italiano veniva restituito con una scrittura capace di far «vedere», interessata non tanto ad esprimere un giudizio di gusto, ma anzi sottraendo la parola «io» per far parlare lo spettacolo. Era stato Quadri, assieme a Giuseppe Bartolucci, a fiancheggiare e a far emergere dalle cantine artisti e gruppi che poi avrebbero girato il mondo e che da un punto di vista della produzione estetica sono oggi forse il frutto più importante del sessantotto italiano. Una parabola esaltante che oggi appare miracolosa, in cui nel giro di una manciata di anni, si bruciano esperienze, possibilità, provocazioni, in una corsa continua quanto sfrenata verso il confine, il limite che ogni linguaggio, compreso quello teatrale, ha. Non c’era altro modo per capire cosa fosse avvenuto in quegli anni, a parte le fotografie e qualche pionieristica quanto ormai criptica ripresa video, che riandare a quegli scritti e sforzarsi, con una certa dose di negromantico masochismo, di riviverne una piccola porzione. Nel ricco apparato di foto, appunti, schizzi, biglietti, amici, contenuto in questo numero di Panta ci sono anche diverse riproduzioni di alcune pagine dei suoi quaderni, dove si può vedere la meticolosità del suo «lavoro di spettatore». Fogli riempiti con una scrittura minuta, quasi certosina, rigonfi di informazioni su ogni caratteristica dello spettacolo recensito, i materiali di cui è composta la scena, le musiche, le citazioni contenute nel testo. C’era poi la Ubulibri, la casa editrice che aveva fondato e che pubblicava non solo libri di teatro ma anche di cinema, il John Ford di Lindsay Anderson, Fassbinder, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo di Deleuze. Anche qui c’era il segno profondo di un certo novecento che era stato anche scavalcamento di uno specialismo angusto e ottuso, incapace di vedere il movimento generale dei linguaggi artistici. Libri che già dalle copertine davano l’idea di qualcosa di diverso dal saggio critico o dal diario di lavorazione, situandosi potremmo grossolanamente dire a metà strada, in generale costruito da dentro, nell’officina di chi crea l’opera e non fuori, dopo. È il caso dei libri neri, in cui si documenta uno spettacolo o un film, guarda caso senza distinzione, offrendo una scelta il più ampia possibile di materiali. È lì che escono libri come Il Brecht dell’Odin di Barba, L’impero dei sensi di Oshima, Ritorno ad Alphaville di Falso Movimento, Germania in autunno di Renate Klett, Sulla stradadei Magazzini Criminali di Lombardi e Tiezzi. Quadri ha fatto parte di quella generazione che ha coltivato una passione, per lui il teatro, pensandolo però in un contesto più ampio. Non a caso il suo Patalogo nasce in collaborazione con un altro grande eclettico come Giovanni Buttafava, oggi troppo dimenticato. Un nomadismo critico che trovava guarda caso proprio in Deleuze il suo mistico apostolo. Non che si fosse sempre d’accordo, anzi. Però si ammirava la sua strenua volontà di continuare a cercare qualcosa di nuovo mentre i cartelloni e in generali le stagioni si riempivano dei soliti nomi. Una passione di cui oggi ci sarebbe senz’altro bisogno.