Comincio così col ricordo di quel gruppetto di giovani poco più che ventenni i quali costituivano la redazione dell’Unità che finalmente usciva alla luce del sole: estate del 1944, una Roma liberata dai fascisti, esultante di gioia , pullulante di idee e di speranze ma popolata anche da “borsari neri” e “signorine”. In uno di quei giorni arrivò un giovane dirigente con un curioso accento ciociaro. Era Pietro Ingrao. Fu per me come un vento nuovo rispetto ai “mostri sacri” che venivano da Mosca e dall’esilio.

(… ) Che tipo di comunisti erano quei giovani? Essi non venivano da Mosca. Si erano formati sui libri, sulle esperienze e le inquietudini di quell’Italia che già si muoveva sotto la pelle del fascismo e che si rivelò di colpo dopo la liberazione con i film di Visconti e Rossellini, i quadri di Guttuso e di Mafai, le poesie di Montale, i romanzi di Moravia e la casa Einaudi. Quei giovani venivano da storie molto diverse. Che cosa c’era alla base di una mobilitazione etico-politica, così intensa e così radicale? C’entrava poco il mito sovietico, contava moltissimo quello che scrisse Giaime Pintor nell’ultima lettera al fratello e che anche Pietro ci ha detto tante volte: il dovere assoluto di salvare l’Europa dalla barbarie hitleriana. La nascita dell’antifascismo come grande corrente politico-ideale europea.

A ciascuno di quei giovani Vittorio Foa avrebbe potuto rivolgere la domanda che in tempi più recenti pose anche a me. Ma voi credevate davvero nella rivoluzione? In effetti di “rivoluzione” tra i grandi Capi del Pci non si parlava mai. Si parlava molto però e con enorme passione, della lotta per cambiare il tessuto profondo, anche culturale e morale, del paese.

(…) Questa fu la sua grande passione. Immergersi nell’Italia vera, aderire a “tutte le pieghe della società”. Aprire una sezione comunista accanto ad ogni campanile. E questa passione io non l’ho vista in nessuno così assillante come in Pietro Ingrao. Il suo cominciare non per caso da capo-cronista. La cronaca dell’Unità trasformata in una specie di laboratorio per la scoperta del mondo del sottosuolo e dei bassifondi di Roma. Le grandi inchieste su Tiburtino III, Pietralata, Val Melania, autentici lager, informi baraccopoli in cui il fascismo aveva relegato all’estrema periferia la manovalanza miserabile venuta a Roma per costruire i monumenti del regime. Così io cominciai a capire che cosa doveva essere un giornale di sinistra, il cui problema non erano i retroscena del “palazzo” ma la scoperta dell’Italia vera, con le sue miserie, le sue tragedie, le sue violenze.

Del resto sono cose come queste che spiegano quello strano impasto che fu il Pci. Due milioni di iscritti, la maggioranza degli intellettuali. Su che base si raduna questo popolo? Non credo che basti il mito del socialismo, e nemmeno il ruolo che i comunisti avevano avuto nella guerra partigiana. Penso che dobbiamo andare più indietro, al modo come si è andato formando lo Stato unitario, alle sue basi ristrette, all’esclusione delle grandi masse povere, alla frattura profonda fra popolo e intellettuali. Perché è in questo più ampio quadro storico che si trova la spiegazione di quell’impasto singolare che fu la formazione del gruppo dirigente del Pci. La convivenza di personalità così diverse tra loro: Ingrao e Amendola Secchia e Di Vittorio, Berlinguer e Napolitano. Il modo come la piccola schiera così carica di gloria e di autorità politica e morale che usciva dalle carceri e dai lunghi anni del Comintern si mischiò con l’altra schiera, quella dei giovani cresciuti sotto il fascismo e passati attraverso la Resistenza. Ciò che avvenne non era un semplice innesto del nuovo nel vecchio tronco bolscevico ma la rifondazione di un nuovo partito.

Di qui l’assillo togliattiano di coltivare il rapporto con i giovani vissuti in Italia, sotto il fascismo. Ingrao ne sa qualcosa e anch’io ne sono testimone. Cronista parlamentare, appena ventenne, la sera, dopo la seduta della Costituente, mi capitava di essere invitato da Togliatti a mangiare insieme a lui e a pochi altri come Ingrao i filetti di baccalà in qualche osteria intorno a Montecitorio. Era curioso di tutto. Ci sommergeva di domande, cercava di rivivere quella vita quotidiana dell’Italia che da venti anni gli era sconosciuta. Lo dico perché a me pare che la scelta di Pietro Ingrao come direttore dell’Unità non fu una decisione come tante altre. Su di lui Togliatti fece affidamento per una operazione politica e culturale molto innovativa: fare dell’organo del Pci un grande giornale popolare moderno sia nel senso della diffusione di massa che della capacità di dare conto di tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica alla cultura, dalle cronache cittadine, compresa la cronaca nera, lo sport, le corrispondenze internazionali. Il modello a cui dovete guardare –ci diceva- è il Corriere della Sera, non è la Pravda né l’Avanti delle vignette di Scalarini contro i padroni. Noi non abbiamo bisogno di un bollettino di partito né di uno strumento solo di agitazione. Noi vogliamo far crescere una nuova classe dirigente e questa non si forma se non conosce il mondo per quello che è.

E lì che si saldò con Ingrao un rapporto particolare e ne scoprii la complessità, il miscuglio che è in lui di idee e di passioni. La lunga vita di questo caro amico. Una vita ricca di svolte e di contraddizioni. Era un rigido custode delle regole di Partito ma poi in realtà emergeva in lui il movimentista, la faccia populista. Era un classico funzionario di partito ma al tempo stesso ha creduto come pochi al ruolo delle istituzioni e il modo esemplare come fece il Presidente della Camera lo attesta. Aveva dubbi su tutto ma come pochi era un grande trascinatore di folle e oratore di piazze.

(…) Accadde così che colui che le dicerie consideravano il delfino di Togliatti è lo stesso che comincia a sentire l’insufficienza della grande lettura togliattiana dell’Italia come paese arretrato in cui il compito storico dei comunisti era risolvere le grandi “questioni” storiche: il Mezzogiorno, la questione agraria, il rapporto col Vaticano. Questa lettura, nell’insieme, non riusciva più a dare conto delle trasformazioni che cominciavano a cambiare radicalmente il volto dell’Italia: il passaggio da paese agricolo a paese industriale, una biblica emigrazione che svuotava le campagne del Sud, l’avvento dei consumi di massa, la rivoluzione dei costumi. Si dica quello che si vuole, ma questa fu per me la sostanza del cosiddetto “ingraismo”. E tale memoria io la conservo non avendo vissuto né condiviso altre sue vicende. Ridotto all’osso quell’ingraismo fu l’assillo di spingere il Pci a misurarsi con la grande trasformazione dell’Italia alla fine degli anni ’50.

Di qui l’idea di un nuovo “modello di sviluppo” che impegnò Ingrao e i suoi amici. Un dibattito molto intenso oggi impensabile che coinvolse le nuove correnti sindacali animate da Bruno Trentin e si confrontò con tutto ciò che si muoveva sin nelle file cattoliche (i dialoghi con Galloni, De Mita, i “professorini”) e sia nel mondo intellettuale che guardava a La Malfa della “nota aggiuntiva”. E’ in questa temperie che comincia il dissenso che esploderà all’XI Congresso.

Con il diritto a manifestare pubblicamente il dissenso proclamato da Ingrao davanti ai delegati egli rompe quel vincolo quasi sacrale in base al quale il vertice ristretto del partito si presenta unito all’esterno anche se al suo interno il confronto è a viso aperto, ma la regola è tale per cui nessuno, nemmeno il leader, può scavalcare la volontà di quel collettivo: il mitico gruppo dirigente comunista. Poi c’è l’Ingrao della riforma delle istituzioni e delle riflessioni sulle nuove forme del potere e quindi del rapporto con le masse e la crisi della democrazia. Si tratta di grandi squarci di preveggenza. E poi via via il suo distacco accompagnato dalla frequentazione di un settore radicale dell’intellettualità di sinistra. Poi la rottura con la svolta di Occhetto.

Il problema che mi sono posto molte volte è capire fino a che punto la rottura del rapporto di Ingrao col gruppo dirigente comunista, un rapporto che fu strettissimo e anche molto affettuoso con Togliatti costituisce un problema che ci interroga. E ciò nel senso di capire il peso che ha avuto la sua sconfitta nella vicenda del Pci. Ma su questo interrogativo io mi fermo. (…)