Ogni oggetto, ogni evento, ogni sentimento e creazione hanno bisogno, per essere davvero compresi, di uno sguardo filosofico. È questo sguardo che la Critica dei morti viventi cerca di esercitare sulla figura dello zombi. O meglio degli zombi, poiché «gli zombi sono morti che tornano in vita, gli zombi sono sempre più di uno, gli zombi sono una massa indifferenziata» (Antonio Lucci, in Critica dei morti viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia, a cura di Cateno Tempio, Villaggio Maori Edizioni, pp. 110, euro 14).

E ALLORA, in una successione e moltiplicazione di riferimenti e di metafore che diventa a volte senza respiro, in questo libro si argomenta che gli zombi sono il modello al quale il Capitale vorrebbe ridurre ogni proletario e – alla fine – l’intera umanità; gli zombi sono i sempre connessi a facebook, i teledipendenti, tutti i soggetti che si muovono verso la non vita virtuale; gli zombi sono tristi metafore dell’omologazione e del conformismo, i quali hanno le più efficaci manifestazioni cinematografiche non soltanto negli zombi-movie ma anche e soprattutto in opere come Benny’s video di Haneke, Tony Manero di Larraín, Reality di Garrone. Quest’ultimo «è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure» (Livio Marchese).

La realtà collettiva del XXI secolo è lo «spettacolare integrato» descritto già nel 1988 dai Commentari di Guy Debord, uno spettacolare così luccicante e insieme così desolato da giustificare la parola con la quale i vampiri di Jarmusch definiscono gli umani: zombi, appunto, dai quali i protagonisti di Solo gli amanti sopravvivono cercano di difendersi, umani che progressivamente spengono la natura, coprono la bellezza, trasformano la scienza in semplice strumento finanziario.

LO ZOMBI è anche il servo hegeliano che si nutre del suo padrone e che nel marxismo cerca di passare dalla non vita e dalla non storia alla vita e alla storia finalmente dispiegate. E può essere l’homo homini lupus di Hobbes, un cannibale alla perenne ricerca per l’appunto della carne dei suoi simili. L’impronta hobbesiana dei film di Romero è stata infatti notata da molti studiosi.
Emerge in ogni caso con chiarezza la serietà filosofica di questa figura, già delineata in quella del filosofo platonico – che esce dalla caverna per rientrarvi nel tentativo di liberare i suoi compagni morti in vita – e del filosofo leopardiano, la cui esistenza ha come scopo anche il disvelamento del morire e quindi la rivolta contro ogni illusione, la consapevolezza del limite umano e universale, il cui emblema è la saggezza della ginestra, vivente sempre sull’orlo della fine.

L’umano è lo zombi che non sa di esserlo. Lo zombi è l’umano nel suo destino, ben descritto dalla molteplicità dei termini con cui Vladimir Jankélévitch (La morte, Einaudi) parla di ciascuno di noi come di un’entità che ha la proprietà del morire – mortalis -, pronta in qualunque momento a farlo – moriturus -, per la quale arriverà l’istante esatto – moribundus – in cui si diventa prima moriens e poi definitivamente mortuus. Ci sono tanti modi di essere vivi e morti. Ci sono tanti modi di essere zombi.