Chi ha ordito la strage di piazza Fontana? Chi ha voluto la morte di Aldo Moro? Non sono i soli «misteri» intorno ai quali si esercita da decenni un esercito di investigatori dilettanti. L’intera storia repubblicana nel secolo scorso è portata quasi ogni giorno alla sbarra, con l’accusa di aver nascosto la sua fangosa trama reale. Ma nella fittissima rete di trame vere e molto più spesso presunte, quelle due vicende rappresentano gli snodi centrali, le colonne che reggono la costruzione torreggiante della «dietrologia».

Tra tutti i «misteri» della Repubblica nessuno eguaglia il sequestro Moro per quantità di supposizioni spacciate per verità palmari, di illazioni, fantasie sbrigliate e assoluto disinteresse per la verifica concreta. Seguire puntualmente una valanga di rivelazioni e sedicenti scoperte che prosegue ormai da decenni è letteralmente impossibile. Un esempio recente e autorevole, trattandosi della nuova commissione bicamerale d’inchiesta che re-indaga sul fattaccio, illustra alla perfezione il metodo seguito da decine di cacciatori d’intrighi.

La commissione chiede al Ris di verificare se una persona fotografata in via Fani dopo la strage sia Antonio Nirta, uomo della ’ndrangheta la cui partecipazione all’agguato era stata denunciata una ventina d’anni fa dal boss Morabito senza che però gli inquirenti trovassero alcun riscontro. Il Ris risponde che mancano «elementi di netta dissomiglianza». Il presidente della commissione Beppe Fioroni traduce con «c’è la ragionevole certezza che Nirta fosse in via Fani».

I titoloni cancellano anche quel «ragionevole» per evidenziare la certezza. Su Facebook qualcuno riconosce nella foto un compagno di Movimento accorso come tanti in via Fani dopo la strage, ma nessuno ci fa caso. La presenza di Nirta nel commando diventa così, per migliaia di lettori, un fatto acclarato.

Conviene quindi concentrarsi sul manipolo di autori che hanno provato a seguire i fatti invece che le convinzioni a priori o le suggestioni. L’ultimo in ordine di tempo è un giovane ricercatore, Nicola Lofoco, che si è concetrato su un’analisi dettagliata delle testimonianze e ha registrato i risultati in Cronaca di un delitto politico (Les Flaneurs, pp. 215, euro 14.00). Lofoco, testi e fotografie alla mano, fa piazza pulita di alcuni dei residui enigmi del sequestro. La presenza di una Honda rossa con due brigatisti sfuggiti alla giustizia, per esempio, è una convinzione comune anche a molti che non flirtano con i romanzi di spionaggio. Si basa sulla testimonianza del «supertestimone» Alessandro Marini, secondo cui dalla moto era partita una sventagliata di mitra che aveva forato il parabrezza del suo motorino. Riletta da Lofoco la supertestimonianza appare dettata da un evidente stato confusionale, che gli aveva fatto vedere 22 persone armate in via Fani più una macchina inesistente. Le foto, in compenso,mostrano il famoso parabrezza. Intatto.

Allo stesso modo, l’autore smantella la leggenda secondo cui «metà del lavoro» in via Fani sarebbe stato portato a termine da un solo super killer, evidentemente molto più addestrato degli altri. Perizie alla mano dimostra che se in effetti metà dei bossoli ritrovati provengono da una sola arma, è anche vero che quei colpi raggiunsero solo uno degli agenti di scorta, Raffaele Iozzino, il che basta a smontare la leggenda di Rambo in via Mario Fani.

Lofoco si muove nel solco aperto dai due libri sul caso Moro di Vladimiro Satta che hanno smontato una per una quasi tutte le fandonie che circondano i 55 giorni. Di recente Satta si è cimentato con un’opera più ambiziosa. In I nemici della Repubblica (Rizzoli, pp. 272, euro 28.00) affronta l’intera fase storica del terrorismo, quella più densa di misteri, partendo da piazza Fontana per arrivare alla strage di Bologna. L’intento è dimostrare che il coinvolgimento dello Stato in quelle vicende fu o inesistente o comunque infinitamente minore di quanto dato ovunque per certo da quasi mezzo secolo.

Satta applica la sua interpretazione «contro-dietrologica» anche a piazza Fontana, forse l’unico episodio considerato universalmente davvero denso di intrecci torbidi tra Stato e terrorismo. Le reticenze e le clamorose coperture offerte dal Sid a Giannettini, che Satta stesso segnala come agente di notevole importanza, rispondevano, nella sua lettura, essenzialmente alla necessità di proteggere il servizio in particolare dalle accuse di aver arruolato una figura come Guido Giannettini, non a quella di fare da scudo agli stragisti. Da un’analisi dei testi di Freda il bombarolo, Satta evince poi che obiettivo della strage non era, come si pensa di solito e come sarebbe inevitabile se dietro le bombe ci fosse lo Stato, un’operazione di stabilizzazione nel cuore dell’ «autunno caldo» del 1969 ma, al contrario, il progetto nichilista di portare la tensione all’estremo per provocare quella Disintegrazione del sistema che Freda aveva profetizzato nel suo testo più famoso.

Satta critica severamente l’arruolamento di neofascisti dichiarati come Giannettini nei servizi segreti e a maggior ragione la copertura offerta a quegli stessi agenti, facendoli fuggire all’estero, una volta coinvolti nell’inchiesta. È difficile però evitare la sensazione che un po’ sottovaluti le conseguenze di quelle commistioni. Riconosce che i gruppi fascisti si erano forse fatti l’idea di poter godere della complicità dei servizi, ma senza poi chiedersi quanto quell’illusione potesse essere stata coltivata ad arte e se, pur senza arrivare alla strage, non esistesse una strategia di infiltrazione e provocazione sfuggita poi di mano.

Quando però Vladimiro Satta prende di mira le teorie che indicavano in alti esponenti della Dc, come Mariano Rumor, i registi o almeno i referenti degli stragisti, o quando demolisce le più moderne fantasticherie su una «doppia bomba» è inevitabile concludere che l’impianto venefico della dietrologia è nato allora. In quel pasoliniano «io so ma non ho le prove» che ne costituisce a tutt’oggi il manifesto programmatico.