” Il Drugo sa aspettare” recita una delle citazioni più note di Il grande Lebowski, film di culto del 1998 dei fratelli Coen da ieri di nuovo nei cinema italiani in versione rimasterizzata (per soli tre giorni, ancora fino a domani). Oggi, l’attitudine hippy e quasi zen del trasandato protagonista interpretato da Jeff Bridges è perfino diventata una religione – il dudeismo – in bilico tra il serio e il faceto, e nuovi ministri del neo-culto vengono eletti ogni anno.

 

 

Tutto ha però inizio in modo molto diverso da come ci si sarebbe potuti aspettare: in patria, cioè in America, il film è un semi-fiasco al botteghino, dove incassa la metà del precedente – e molto meno costoso – Fargo. In Europa è accolto con maggiore calore, specialmente al Festival di Berlino dove viene presentato in anteprima, ma dove comunque – giungendo ai premi – gli si preferiscono altri lavori in tutte le categorie. In Italia, il trailer tutto incentrato sulle gag più convenzionali faceva pensare ad una versione a stelle e strisce di un cinepanettone, per cui lo vide quasi solo chi aveva già dimestichezza con la coppia di registi, ancora non superstar, di Blood Simple, Fargo ed Arizona Junior.
Non trascorre però molto tempo prima che il passaparola, all’epoca ancora non favorito da internet, dia il via alla seconda vita del film, che ha inizio dal momento in cui persone di tutte le età, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, lo elevano a fenomeno di culto citandolo a memoria e rivedendolo decine di volte – spesso in sessioni di gruppo in cui iniziare nuovi adepti.

 

 

La storia dello sfaccendato losangelino con la passione per il bowling, che si ritrova invischiato in un caso di rapimento a causa della sua omonimia con un invalido miliardario, diventa così non solo il film più apprezzato dei due registi, poi vincitori di un Oscar con Non è un paese per vecchi, ma uno dei più amati di tutti gli anni Novanta, e la sua fama in sedici anni non ha perso nulla del suo vigore. Il vangelo secondo Drugo, uscito nel 2013 anche in Italia, è un compendio del culto lebowskiano, praticato nella Chiesa del Drugo degli ultimi giorni: un mix di filosofia zen ed epicurea aggiornate all’epoca contemporanea.

 

 

Molti anni dopo – di nuovo a Berlino, dove nel 2011 presentavano Il Grinta – i fratelli Coen hanno occasione di esprimersi in merito alla venerazione che la prova del tempo ha portato al loro film, per cui spendono parole tutt’altro che entusiaste: «Col passare degli anni, grazie al mercato dell’home-video, Il grande Lebowski è stato rivalutato negli Stati Uniti, ed è diventato l’origine di un culto veramente ridicolo».
Che si ritengano o meno troppo velenose, queste parole riportano però ai veri motivi per cui Lebowski si dovrebbe amare, e a ragione: per la sua bellezza di film e per i suoi personaggi di rara perfezione; su tutti l’ «aspirante ebreo» sempre al fianco del protagonista, quel Walter Sobchak reso immortale da John Goodman, macchietta comica reduce del Vietnam con cui – con le parole di Drugo – «Tutto diventa grottesco».

 

 

 

 

Le tante dinamiche per cui dei film passati in sordina diventano poi degli stracult sono infatti difficili da rintracciare con precisione, ma il perché è presto detto. Con Il grande Lebowski i due fratelli americani hanno realizzato un ingranaggio comico perfetto, in cui la raffinatezza delle citazioni cinefile e letterarie è pari solo all’understatement con cui ne parlano. Con le parole dello stesso Ethan Coen: «Si ha la sensazione di assistere ad un congresso di disadattati».

 

 

Innestata su una trama che si ispira alle detective story di Raymond Chandler, e su tutte Il grande sonno, la commedia del Drugo è infatti la caricatura degli anni Sessanta da cui i personaggi sembrano usciti – l’hippy, il veterano, l’artista concettuale, l’abbondanza di droghe leggere – e degli stessi cliché della vicenda noir: «il detective privato» (Drugo), «il milionario dai loschi traffici» (Lebowski), la «donna sofisticata» che seduce il protagonista (Maude), la ragazza licenziosa e depravata» (Bunny) ed il «garbato» pornografo (Jackie Treehorn) diretta filiazione degli infidi proprietari di night club di chandleriana memoria.
In pieno stile postmoderno, c’è però tanto altro che nel film dei Coen viene citato ed omaggiato, dall’umorismo tradizionale ebraico al tributo alle coreografie di Busby Berkeley e con lui ai musical degli anni Trenta e Quaranta, mentre per la prima volta al cinema possiamo fare esperienza della soggettiva di una palla da bowling.

 

 

A rendere questo film indimenticabile sono stati poi soprattutto i suoi personaggi-interpretati quasi solo da grandi attori – ognuno con le sue caratteristiche comiche ed ognuno dotato di battute ricordate con dovizia di particolari dai fan: John Turturro ed il suo campione di bowling Jesus; il viscido segretario di Lebowski, Brandt, interpretato da Philip Seymour Hoffman, e così via fino al personaggio che completa il trio di cui fanno parte i protagonisti, quel Donnie (Steve Buscemi) che confonde Lenin e Lennon, con sommo disappunto di Walter.
Dopo sedico anni, decine di eventi efiumi di inchiostro ad esso dedicati, Il grande Lebowski torna dunque in sala. Per chi ha saputo aspettare, è finalmente l’occasione di vederlo, o rivederlo, sul grande schermo, e per qualche fortunato di farlo per la prima volta.