Si è conclusa da poche settimane a Roma la seconda conferenza internazionale sulla nutrizione (Icn2), sotto la leadership congiunta di Fao e Oms. L’incontro puntava a esaminare le sfide della nutrizione in tutte le sue forme e a concordare nuove strategie per risolvere il dramma di oltre 200 milioni di bambini che nel mondo soffrono di malnutrizione acuta e cronica, degli 800 milioni di persone che soffrono la fame, e dei 500 milioni di adulti appesantiti da un’obesità sempre più pervasiva, nel nord e nel sud del pianeta.

La conferenza ha avuto una funzione decisiva per restituire al tema della nutrizione la rilevanza politica che merita, a ventidue anni dalla prima assemblea intergovernativa sull’argomento. La sua tempistica non è stata casuale, collocata in un momento di snodo strategico del negoziato globale sull’agenda dello sviluppo, quello che nel 2015 demarcherà la transizione dagli obiettivi del millennio del periodo 2000-2015 (Millennium Development Goals, MDGs) agli obiettivi dello sviluppo sostenibile (Sustainable Develoment Goals, SDGs) dal 2015 al 2030.

In un mondo in cui una persona su nove è cronicamente affamata, il nesso fra nutrizione, diritto al cibo e sviluppo sostenibile non ha particolare bisogno di spiegazioni. La fame annichilisce ogni sviluppo fisico e cognitivo di una persona, ne erode la capacità di lavorare e di avere figli sani, espone inesorabilmente alla malattia e poi alla morte. Superare la malnutrizione però non equivale più, semplicemente, ad aumentare la quantità del cibo disponibile. La Fao ha sviluppato in 14 temi una vasta agenda di priorità per il post-2015, che spazia dalla protezione sociale all’energia, dai cambiamenti climatici alla biodiversità, gli ecosistemi e la genetica, dalla desertificazione dei mari e degli oceani alle foreste, dai diritti di proprietà della terra all’acqua e la qualità dei suoli. C’è solo l’imbarazzo della scelta a volersi mettere al lavoro per un mondo giusto, capace di restituire dignità di vita e di futuro. Sostenibile, appunto.

Al Summit Mondiale dell’Alimentazione del 1996, la comunità internazionale si era impegnata «al conseguimento della sicurezza alimentare per tutti e a uno sforzo continuo per sradicare la fame in tutti i paesi, con il traguardo immediato di ridurre il numero degli affamati fino a dimezzarne il numero attuale entro il 2015». Pochi anni dopo, alle prese con la formulazione del primo degli Obiettivi del Millennio, i governi distorsero e diluirono quel livello di ambizione non promettendo più di dimezzare il numero, ma la proporzione di quanti vivevano in povertà estrema, approfittando della rapida crescita demografica. Malgrado quella cinica manipolazione, dal 1996 a oggi il numero delle persone malnutrite è rimasto più o meno costante, anzi gli scenari sono peggiorati a causa dell’acutizzarsi della disuguaglianza globale. Rileva l’ultimo Global Health Watch Report che il numero assoluto di persone denutrite è aumentato in diverse parti del pianeta, e anzi il paradosso sta nel fatto che la prevalenza della fame e dell’insicurezza alimentare progredisce in regioni con una relativa crescita economica, come l’India e alcuni paesi dell’America Latina.

La fame poi – prodotta dalle speculazioni finanziarie sul cibo e dall’alta volatilità dei prezzi delle derrate alimentari, dai cambiamenti climatici, dall’impatto delle produzioni dedicate ai biocombustibili, dal costante declino dell’investimento pubblico nell’agricoltura – non è più l’unica piaga. Il mercato globale ha assicurato il dono dell’ubiquità a cibi spazzatura e bevande sovraccariche di zucchero, ormai accessibili ovunque, economiche, rese accattivanti dalla bugia maligna di avvicinare i poveri alla modernità, in competizione con i tradizionali prodotti della terra.

Tant’è che si è diffusa già – nuova priorità nell’agenda sanitaria globale – quella che possiamo definire una pandemia del nuovo millennio: uomini e donne obese e in sovrappeso, specialmente nei paesi a basso reddito, persone sempre più esposte a patologie croniche come il diabete, le malattie cardiovascolari e i tumori, per cui i sistemi sanitari del sud del mondo non sono affatto attrezzati.

L’agricoltura, attività primordiale dell’umanità, è ancora per molti paesi a basso e medio reddito la principale forma d’impiego della grande maggioranza della popolazione; assicurare che i contadini abbiano quanto serve loro per coltivare la terra e allevare il bestiame è funzionale allo sviluppo e alla stabilità sociale di intere nazioni. In questo mondo alla deriva in nome della crescita economica senza limiti l’agricoltura è, invece, il settore in cui si registrano alcune delle immani distorsioni del pianeta. Metter mano e modificare i sistemi di produzione del cibo (food systems) è dunque una priorità assoluta. Le coltivazioni e gli allevamenti intensivi, come oggi li conosciamo, esercitano uno stress pazzesco sull’ambiente e contribuiscono massicciamente al riscaldamento climatico. Emettono più gas serra di tutti i mezzi di trasporto del mondo, aerei compresi, a causa del metano rilasciato dagli allevamenti di bovini e le coltivazioni di riso, il protossido d’azoto rilasciato dai fertilizzanti, e l’anidride carbonica dovuta al taglio delle foreste pluviali per far spazio a nuovi allevamenti di bestiame e a nuovi terreni da coltivazioni industriali. Così ridotta, l’agricoltura accelera la perdita di biodiversità.

A questa tragedia di un mondo alla rovescia si aggiunga il paradosso delle regole del commercio globale sull’agricoltura stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), forse il capitolo più controverso del Doha Round per lo Sviluppo. Secondo un paradigma di disuguaglianza sistemica imposta dalle istituzioni internazionali, le regole prevedono la possibilità per i paesi industrializzati di garantire sussidi alle loro produzioni agricole e di imporre elevate tariffe, mentre le stesse condizioni non valgono simmetricamente per i paesi a basso/medio reddito, i quali hanno un margine di manovra limitatissimo a sostegno dei loro produttori agricoli. Perché una tale aberrazione? Perché i paesi in via di sviluppo non avevano politiche di sussidio all’agricoltura prima della creazione dell’Omc.

Oltre a vedersi impedito ogni tentativo di protezione dell’agricoltura domestica, questi paesi sono sistematicamente inondati dai prodotti agricoli del nord assai competitivi nei prezzi grazie ai sussidi, che uccidono i mercati locali e nazionali. È la storia raccontata qualche tempo fa da Al Jazeera dei pomodori raccolti dai migranti africani schiavizzati nel sud Italia, che vengono venduti come pelati in scatola low cost nei mercati dell’Africa occidentale a discapito dei pomodori locali.

Questo deficit di ragionevolezza, prima ancora che di giustizia, comporta diverse esternalità. Rovina l’agricoltura familiare e quella di piccola scala, minaccia i sistemi di coltivazioni agro-ecologiche nel sud del pianeta, ed erode ogni abilità di resistere alle crisi climatiche. Sarà bene pensarci, quando vediamo arrivare i barconi sulle nostre coste.

Parlando all’ultima Assemblea Generale dell’Onu, il segretario generale Ban Ki Moon ebbe a dichiarare che il 2015 sarà «uno degli anni più importanti dello sviluppo, dalla fondazione stessa delle Nazioni Unite» e che «catalizzerà un’opportunità senza precedenti per un’azione globale di lungo spettro, da molto tempo dovuta, volta ad assicurare il benessere futuro del pianeta e delle generazioni che verranno».

Fatalmente, finché non si mette mano alla risoluzione di patologie di sistema come quelle che abbiamo illustrato, patologie di potere potremmo chiamarle, ogni discorso sull’agenda per lo sviluppo post-2015 resta purtroppo una favoletta a uso e consumo di certo multilateralismo narcisista e decadente.

E la proposta formulata fin qui dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) rischia di assomigliare a un film già visto, l’ennesima vacua lista di buone intenzioni.