Un cielo ingabbiato. Dipingono sbarre e continuano a intingere il pennello solo nel nero. L’insegnante ha chiesto a una classe elementare dell’UNRWA Boys School del campo profughi di Balata, Palestina, di raccontarsi in una immagine. Perché sempre nero? Per l’ingiustizia, risponde uno, mentre il compagno sta usando anche un po’ di verde. Ancora: Hareali, scuola nazionale secondaria di Haifa. Come immagini Israele tra 20, 30 anni? C’è troppo odio, non riesco a vedere oltre, è la risposta di un ragazzo. «Non sono tanto addentro alla religione, me ne andrò. La cosa che mi fa più male è la paura», interviene un altro. E guardano in macchina: serissimi tesi, preoccupati tristi, senza la minima luce.

E ancora: scuola elementare di Ramallah, West Bank, dal tema/lettera a un coetaneo ebreo francese: «Caro amico, le cose non vanno bene qui, gli israeliani ci hanno preso la terra, il pane il sale l’acqua. Ti prego, di’ a tuo padre, che è un uomo importante anche in Israele, di far finire il nostro dolore». Sono «epifanie» da This is my land, il documentario di Tamara Erde, proposto in anteprima italiana nei giorni scorsi dal Middle East Now FF di Firenze. Titolo omonimo al lavoro di Giulia Amati e Stephen Natanson (2010), intorno a Hebron, territori occupati della West Bank, il doc ha un focus dichiarato fin dall’incipit dalla regista stessa – giovane israeliana – ossia l’indagine sul modo in cui in Israele e in Palestina si insegni la storia del conflitto. Cercare il come, dunque, non solo a rimarcare la crucialità ineludibile dell’istruzione nel determinare il presente e il dopo che verrà, ma innanzi tutto a porre la questione, preliminare e tutt’altro che scontata, della necessità di una pedagogia critica, aliena da strumentalizzazioni o trasmissioni dogmatiche, una pedagogia che, in questo tracciato atavico e acuminato, insegni prima di ogni cosa a porsi domande. In una quiescente accettazione di quanto le viene proposto cresce l’autrice del film («non conoscevo nulla della storia della Palestina»), finché durante il servizio militare, si innesca in lei la molla dell’interrogarsi.

Così, qualche anno dopo eccola tornare a Tel Aviv, contattare insegnanti (a diversi il Ministero dell’Istruzione non consente di essere filmati), immergersi per un anno nella vita di sei classi in altrettanti istituti (per israeliani, per palestinesi e misti), dove il montaggio è la strada in macchina che li separa, tragitto assolato di direzioni interdette, muri, contiguità incandescenti e convivenze da decifrare. Che cosa è libertà. Che cosa è diritto e cosa violazione del diritto. Ricadute psicologiche dell’occupazione: «Ci toglie il rispetto di noi stessi, distorce l’autopercezione». Un insegnante palestinese lavora sul filo dell’immaginazione: essere reclusi e sentire lo scotch sulla bocca, visualizzando il volo senza confini degli uccelli, e dando calci al muro della scuola. Un’altra, a Neve Shalom, la scuola non governativa mista, in compresenza con un collega israeliano, indaga su cosa sia «homeland». E ancora le responsabilità di Ben Gurion verso i palestinesi, che cosa sia Olocausto e se ha inciso sulla creazione dello Stato di Israele, un viaggio al campo di concentramento di Belzec in Polonia e suoi effetti sulle identità israeliane. Uno studioso palestinese e una israeliana riflettono su curriculum scolastici zeppi di guerre e di massacri, programmi che, complice una educazione sempre più religiosa da entrambi i lati, tendono a rimuovere la storia l’uno dell’altro (mentre alcuni insegnanti lasciano i volumi governativi censurati per materiali autoprodotti e si sperimentano cooperazioni israelo-palestinesi – vedi La storia dell’altro). Nodale dunque, per gli insegnanti palestinesi, pur parlando da un punto di vista oppresso e minoritario, gestire la rabbia e il senso di inferiorità latente nei ragazzi; per gli israeliani, lavorare sul trauma non come via di trasmissione del ruolo della vittima, ma come accesso a empatia e immedesimazione. Emerge allora un bisogno assoluto di una narrazione storico-pedagogica attendibile e critica, così come di un racconto mediatico altrettanto lucido e non deformato da interessi internazionali deviati, volti a sotterrare la storia e la memoria del popolo palestinese, nonché a occultare lo stato insostenibile di non vita in cui si trova costretto.

Su questo filo, lo scorso 15 aprile, quarto anniversario dell’uccisione di Vittorio Arrigoni, al teatro Ghirelli di Salerno nell’ambito della rassegna «Femminile Palestinese», a cura di Maria Rosaria Greco, si è agito un lungo serratissimo incontro/report da Gaza, a colloquio con Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme per il manifesto e con il giornalista Pietro Falco.

Oggetto, lo stato delle cose post «Margine protettivo», l’ultimo intervento israeliano dell’estate 2014, con 2220 morti, 100mila senzatetto (tra cui secondo l’allarme Onu 40mila donne incinte), con le risorse idriche e elettriche gestite in modo totale da Israele, a distruggere le gallerie sotterranee che permettono l’ingresso di alimenti e carburanti, e a lanciare, contro tutte le convenzioni internazionali, «bombe avvertimento» sulle abitazioni civili, previa telefonata e due minuti per lasciare la casa … Ancora si è analizzata l’astrusa mappa geopolitica delle connivenze internazionali (quanto distante dalle esigenze degli esseri umani, come sottolinea l’accoratissimo intervento di Omar Suleiman, cuoco palestinese della serata, a rammentare il centenario della questione mediorientale), tra cui le responsabilità dei confinanti egiziani nel precludere una via di fuga all’esistenza blindata dei palestinesi (nemmeno poter morire in mare). E ancora l’osare della Flottilla e dell’Arca per Gaza, le letture da Arrigoni a toccare il cuore di tutto e le testimonianze di due attiviste, Sara Cimmino e Rosa Schiano, sulla lotta sociale delle donne palestinesi, che sempre più inesorabilmente si fa politica (in diverse scuole nel doc vediamo solo maschi). A una bambina israeliana che dice che bisogna cacciare gli arabi, Tamara Erde chiede come crede parlino di lei e del conflitto nelle scuole palestinesi. Che significa conflitto, è la risposta.