Un cargo marocchino ancorato nel porto, quindici uomini di equipaggio che non abbandonano la nave, in sciopero perché non ricevono lo stipendio dasei mesi, senza cibo, né gasolio né acqua potabile. Non è un romanzo di Jean-Claude Izzo, ma un fatto di cronaca vera, iniziato nel marzo del 2013, il caso della nave« Kenza attraccata al porto di Cagliari. Peter Marcias ne ha fatto un film La nostra quarantena, che sarà presentato come evento speciale al Festival del nuovo cinema di Pesaro (20-27 giugno), un film che naviga al largo delle coordinate del documentario, più vicino a quei romanzi marinareschi dove una continua bonaccia costringe alla riflessione e il blocco degli eventi simula una situazione di stallo più generalizzata. Così le parole dei marinai fluiscono non come aggiornamenti di una situazione, ma come bottoglie con messaggio lanciate tra le onde. Naufraghi accolti, migranti respinti e questi quindici marinai adottati dalla popolazione, aiutati a sopravvivere. Peter Marcias, giovane regista sardo già premiato in vari festival internazionali ci racconta la sua avventura. «È venuta per caso l’idea del film. Su quel caso hanno fatto una serie di dimostrazioni, c’è stata una conferenza stampa e mi sono detto: fammi andare al porto a capirne di più. Hanno avuto un po’ di reticenza a farmi entrare nel piorto, ma grazie alla Stella Maris, un’asociazione che si occupa dei problemi dei marittimi, sono entrato ed è iniziato una sorta di «pellegrinaggio». Ho fatto una specie di volontariato portando da mangiare perché non avevano proprio niente, neanche l’acqua. Ho detto a loro che mi sarebbe piaciuto documentare questa vicenda. Siamo in un porto italiano tra o più belli perché si affaccia sul Mediterraneo. In questo porto arrivano le navi della Tirrenia e c’era questa nave gigantesca ferma lì: un po’ l’ho interpretata come una specie di blocco «italiano», mi sono venute tante idee stando con loro, parlando. Ho voluto raccontare le esperienze di questi ragazzi, mi sono rivisto, quando ero più giovane, uno studente che si interessava e rifletteva.
Anche tu hai fatto l’università e poi hai cominciato a fare il cinema come arrivato ad un bivio
Facevo Scienze politiche a Cagliari, non ero soddisfatto e sono partito per Roma. A Cagliari si sta bene, ma avevo sempre questo mito di Roma, di partire. Un po’ ho raccontato anche me stesso da giovane, anche se ora ho trentasette anni. È stata anche una riflessione sul lavoro: loro sono in un porto italiano, sostenuti dagli italiani. In un momento in cui si parla tanto di aiuti, di sostegno, ho cercato di raccontare di un’Italia migliore che forse ha gli stessi problemi di quei marittimi, forse anche più gravi.
Nella varietà dei piani proposti dal film, il problema centrale sembra essere quello sindacale. Perché il ragazzo mostra di avere dei dubbi a proposito? Come se non capisse cosa stia succedendo?
Sono gli stessi dubbi che ho avuto io. Non capivo se sotto ci fossero delle piccole trame, girava la voce che l’armatore li stesse costringendo a stare lì per recuperare dei soldi. Ma più stavo lì più mi rendevo conto che non era così. Alla fine mi sono convinto che loro andavano sostenuti perché erano quindici uomini come noi senza acqua né cibo né niente, un po’ mi sono dimenticato dell’aspetto del lavoro, anche se nel film rimarcano questo aspetto, il fatto che l’armatore ha buttato via i loro sogni. C’è il ragazzo che vuole giocare a basket, più romantico, c’è quello della sala macchine. Il senso di spaesamento è anche dovuto al fatto che è stato girato in parecchi mesi. Poi come dice il presidente di Stella Maris, Piero Pia, mentre stava seguendo la vicenda aveva la moglie ricoverata in ospedale e anche questo mi ha destabilizzato perché non capivo come uno con la moglie grave e i figli che lo pregavano di stare di più con lei, si occupasse anche di queste persone. Tutto questo mi ha creato uno spaesamento che spero si evinca dal film. Mi è piaciuto iniziare con la presenza del Papa, tutta la città ad accoglierlo mentre loro sono bloccati soli sulla nave.
Che mi dici dei vari mezzi con cui è stato girato?
L’abbiamo girato per la maggior parte con la Canon, poi con il Super8 e con l’Iphoone perché in certi giorni andavo da solo e mi serviva registrare le parole, i volti, come un taccuino su cui prendere appunti di viaggio. Non mi sono posto il problema della resa. Giravo perché era importante filmare quel senso di spaesamento.
E al montaggio è interessante vedere come si mischiano questi diversi livelli
Ma non mi sono posto questo problema, l’idea era del grande taccuino con tante parole a sottolineare lo spaesamento.
Però le riprese con il Ssuper8 suggeriscono un’idea di lontananza, un mezzo che forse oggi nessuno usa più
Ho voluto calcare le riprese in Super8 perché mi piaceva la nostalgia del cinema, mi piace la pellicola, mischiare, andare a rivedere. Ho collaborato tanto con la Cineteca di Cagliari: loro hanno fatto un grande recupero dei registi degli anni ’40-’50, mi sono sempre interessato a questo repertorio, hanno recuperato tanto cinema di famiglia, sono arrivate valanghe di immagini come il teatro fatto in casa, sembrano film, ne ho utilizzato qualcuno nel film che ho fatto su Piera Degli Esposti, Tutte le storie di Piera. Mi sarebbe piaciuto pensare che anche questo ragazzo che conduce una ricerca sul caso (è interpretato da Moisé Curia) potesse anche essere un appassionato di cinema, che fosse importante testimoniare cosa stava succedendo e per questo gli ho messo in mano quella cinepresa Super8. In ogni caso sono pochissime le immagini girate così, ma ci ho lavorato molto perché mi sembrava la strada giusta.
Come si è conclusa la vicenda legale?
Sono partiti tutti un po’ alla volta, ma la nave è ancora attraccata al porto di Cagliari nello stesso punto, l’ha comprato un nuovo armatore che adesso ci ha messo due o tre marinai e la farà ripartire a breve. Le questioni salariali sono state risolte. Loro si erano fermati in un porto sardo perché ci sono delle convenzioni marittime, in acque marocchine sarebbero stati lasciati morire senza cibo, senza acqua. Erano molto grati a questa situazione italiana, e io ero particolarmente contento perché pensavo che in ogni caso c’è un’Italia migliore, quella della solidarietà. Sono stati bene, c’è stato un grande sostegno, li hanno aiutati le società che producono gasolio, io stesso ogni quindici giorni portavo chili di agnello, di pecora perché sono musulmani, e chi portava i polli, chi portava le patate. Alla fine certe volte sono stati fatti anche dei pranzi cucinati dai loro cuochi. È stata davvero una bella esperienza.
E il tuo rapporto con la letteratura di mare, con i film di mare?
Con la letteratura di mare non ho tanta confidenza, un mio amico mi ha parlato di un romanzo dove marinai sono bloccati nel porto di Marsiglia (Marinai perduti (Les Marins perdus di Jean-Claude Izzo, vedi articolo di Luciano Del Sette su Alias 30 gennaio 2015 ndr) però ho un fortissimo rapporto con il mare, anche se da quindici anni vivo a Roma, scendo quando posso a Cagliari e, anche se abito a qualche chilometro, devo andare al mare, al porto, sentire il profumo. E anche i marinai, lo dicono nel film, amano il mare. Il film poteva anche risentire della situazione dei minatori sardi incatenati, ma questo doveva avere un taglio più moderno, una protesta più pacifica sul mare, in una grande scatola di ferro da cui comunque potevano scendere. Protagonista era questa grande scatola di ferro.
C’è poi la presenza di Francesca Neri, una professoressa universitaria con il compito di guida dello studente.
Mentre stavo girando ho pensato a Francesca Neri, lei ha accettato subito anche perché non si era mai misurata con un film così piccolo. Quando le ho proposto questo ruolo è stata molto interessata. Il film l’ho prodotto io con la Cape Town e la fondazione Anna Ruggiu che si occupa di problematiche sociali e che ha prodotto anche il mio Dimmi che destino avrò.