Ciò che più attrae, oggi, nella donna di ottantacinque anni che Edna O’Brien è diventata, sta nella teatralità con cui restituisce quel che è stato oggetto della sua scrittura, e non è difficile indovinare quale scandalo suscitassero i suoi primi romanzi, che vennero infatti proibiti nella bigotta Irlanda degli anni sessanta, dove ogni accenno all’erotismo era materia per il diavolo. Proprio lo sconcerto che creò le fornì – in qualche modo – una speciale carta di ingresso nel mondo delle lettere, e nei salotti dove maturò amicizie non soltanto con letterati come Philip Roth, cui è dedicata la sua ultima raccolta di racconti, Oggetto d’amore (Einaudi, 2016) ma con personaggi tra cui Onassis, Paul McCartney, Marlon Brando: da qui la leggenda della sua mondanità, l’enfasi sui party dove divenne amica di Sean Connery, Robert Mitchum, Gore Vidal, Norman Mailer.

L’approdo nella swinging London fu già di per sé un salto in un altro mondo per la ragazza di campagna che era nata nel villaggio di Tuamgraney, da una madre che sarebbe stata in grado di stupirla con la insospettabile qualità letteraria delle sue lettere, e da un padre gran bevitore, giocatore d’azzardo, totalmente inadeguato sia come genitore che come marito. Edna O’ Brien ha detto più volte che anche solo per immaginare un rapporto armonico tra uomini e donne sotto uno stesso tetto dovrebbe rinascere, ma non manca mai di ringraziare l’eredità dei suoi genitori, fatta di «talento, furia e disperazione». Della sua biografia fa anche parte una analisi con l’allora famosissimo psichiatra Ronald Laing, che forse ebbe una parte nel farle concepire la narrativa come un agone, una sorgente di energia che attinge sempre a qualche forza del male.

Edna O’ Brien dice di scrivere in trance, contornata da una miriade di quaderni, preferibilmente al mattino perché si è più vicini all’inconscio. Ma l’ultimo romanzo, che Einaudi pubblicherà il prossimo inverno, tradotto da Giovanna Granato con il titolo Seggioline rosse, è ben radicato nella realtà storica: ad essa allude evocando, nel personaggio del doctor Vlad – un guaritore che si professa poeta e umanista – il criminale di guerra Radovan Karadzic, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia e Erzegovina, calato nei panni romanzeschi di un fascinoso seduttore, di cui si innamora a caro prezzo una donna sposata, e ignara di chi sia l’uomo al quale si concede.

Pur non somigliando affatto a una biografia romanzata, questo ultimo libro di Edna O’Brien ricalca molti fatti realmente accaduti e non sembra sfruttare troppo le risorse del genere romanzesco per immaginare – sotto le vesti del pazzo sanguinario al quale allude – un uomo lacerato da sentimenti contrastanti. Fatti puntuali e altri solo trasposti di luogo, millanterie e sentimenti effettivamente appartenuti al mandante di Srebrenica si alternano a trasporti erotici funzionali a accendere il romanzo, disegnando il carattere di un uomo al tempo stesso gelido e ripugnante, ma dotato di un magnetismo che lo ha protetto in clandestinità e lo ha reso attraente, nel mondo reale così come nella finzione romanzesca.

Certo è che, come ha scritto nella sua introduzione ai racconti di Oggetto d’amore John Banville – autore lontanissimo da Edna O’Brien – la scrittrice irlandese conosce molti mondi: le è familiare la cornice retriva del cattolicesimo bigotto, la miseria dei confini rurali dove la mungitura delle vacche è la prospettiva con la quale ci si alza al mattino, gli interni operai irlandesi e quelli mondani inglesi; le sue pagine accolgono tanto la svogliata superficialità delle conversazioni tra facoltosi vacanzieri quanto l’afasico, a volte brutale, scambio di parole sgraziate nelle famiglie contadine; e conosce la morbidezza dell’amore così come i gesti imbarazzati e colpevoli dei repentini distacchi maschili. Sa riprodurre efficacemente tanto la sguaiata lascivia degli ubriaconi irlandesi quanto la vigliacca ritrosìa di amanti fedifraghi, e non le sono ignote le tentazioni illecite favorite dalla clausura degli ambienti monacali. Ma, soprattutto, Edna O’ Brien conosce tutte le variazioni della perdita, dalle piccole frustrazioni contingenti fino alla precipitazione nel caos dell’ansia, quando l’oggetto d’amore improvvisamente si sottrae.

Tra gli argomenti ricorrenti nella sua narrativa quali sono quelli per lei più irrinunciabili, quelli che ancora oggi le stanno più a cuore?
La rabbia, l’amore, l’odio, l’impotenza: tutti questi sentimenti si ritrovano mischiati nei miei libri. Ma a mio parere, nessun argomento capace di ossessionare la mente di uno scrittore è privo di importanza. Quando ho pensato al titolo di questa raccolta, Oggetto d’amore, non ero consapevole del fatto che stavo usando una locuzione di Freud. Ciò di cui parlo non è necessariamente una passione fisica, è piuttosto una sorta di viaggio, una sorta di autopsia dell’amore. Dietro vi si nasconde l’incertezza, ma anche la tragedia che ogni passione porta in sé. Per quanto mi riguarda, dopo mia madre, il mio primo oggetto d’amore fu la figura di Gesù Cristo così come lo avevano rappresentato alcuni pittori italiani che, all’epoca della mia infanzia, erano passati per il villaggio irlandese dove allora abitavo: dipingevano un Cristo sofferente, sanguinante, e dunque sono loro i responsabili delle prime immagini che si sono impresse nella mia mente. Oggi glielo dico con ironia, ma visto che noi tutti siano il risultato delle nostre prime impressioni e delle nostre più remote paure, se nei miei racconti ho parlato di amori tanto dolenti è anche colpa di quei pittori.

Sembra, a quanto ha detto più volte, che la sua concezione della letteratura debba alimentarsi a qualche forza del male, a qualche demone…
Forse, detto così è un po’ troppo radicale, però di certo fin da bambina sono sempre stata consapevole del fatto che tutte le passioni umane nascondono elementi ambivalenti, alcuni buoni altri diabolici. Ma oggi parlerei piuttosto di delusioni, di un destino che interviene nelle storie d’amore a farle andare storte. Non è necessariamente la forza del male a spezzare l’incantesimo, basta la realtà che irrompe con i suoi imprevisti, a volte è la gelosia, altre volte i casi della vita. Qualcosa di diabolico interviene nel ruolo che un personaggio come Iago, per esempio, ha nel destino di Desdemona, ma nei miei racconti direi piuttosto che metto in scena amori minacciati, passioni precarie.

Come descriverebbe i cambiamenti principali intervenuti nella sua scrittura durante i cinquant’anni compresi tra il primo e l’ultimo dei racconti riuniti in «Oggetto d’amore»?
Per la verità, trovo un po’ allarmante la differenza che passa fra la scrittrice che ero agli esordi e quella dei racconti più maturi. Prendiamo, per esempio, il racconto che dà il titolo alla raccolta, «Oggetto d’amore», e quello titolato «Old wounds», che la Einaudi non ha tradotto: nel primo, la voce narrante è quella di una donna profondamente innamorata e senza speranza, che racconta la sua vicenda nella forma di una confessione, restituita investigando ogni minimo dettaglio. Benché dia alla protagonista una inclinazione passionale, faccio anche in modo che il suo racconto sia molto preciso; e, d’altra parte, è come se la narratrice inciampasse in questo amore, è come se ne fosse travolta. La mia identificazione con la voce narrante resta parziale, una parte di me è sempre fuori, osserva, registra, e descrive. In «Old wounds», invece, le vecchie ferite del titolo alludono all’intrecciarsi e poi al rompersi di alcuni rapporti fra due famiglie. Lì, l’evoluzione della mia sensibilità è molto visibile. A un certo punto delle sue memorie, la narratrice – che solo in parte mi corrisponde – disegna una sorta di diagramma della sua amicizia con il cugino, interrotta a causa di una faida come quelle che spesso si verificano nei villaggi di campagna. Alla fine, dice che ciò che era in ballo non apparteneva all’amore né all’odio, bensì a qualcosa cui non corrispondeva una parola esatta: trovargliela, tentare una definizione, avrebbe comportato sottrarre un po’ di autenticità a questa relazione. Man mano che la mia scrittura diventava più matura, ho cercato di penetrare più a fondo il modo in cui funziona l’ambiguità dell’amore.

Si direbbe che il suo rapporto con la letteratura sia quello di una scrittrice al tempo stesso romantica e pragmatica: per un verso – ha detto in più occasioni – lei sente che le sue storie le arrivano alla mente con una tale forza che si sente obbligata a scriverle; ma allo stesso tempo il suo rapporto con il lavoro implica, giorno per giorno, l’allenamento di un atleta.
Certamente, la mia è una disposizione romantica, che mi deriva forse dal primo romanzo che ho letto, Cime tempestose, una grandissima storia d’amore al cui interno c’è, tuttavia, anche molta consapevolezza. Perché il fatto di essere romantici non va confuso con l’essere sentimentali, significa piuttosto vedere le cose più a fondo e con colori più vividi; per funzionare tutto ciò deve essere temperato da un occhio molto freddo, che non necessariamente definirei pragmatico. Direi invece che il mio modo di vedere le cose si preoccupa di andare a tagliarle in profondità, e credo che questo mi derivi dalla educazione che ho ricevuto. L’autore per eccellenza della forma breve, colui dal quale tutti coloro che scrivono racconti hanno imparato e anche rubato, ossia Cechov, nel definire il realismo romantico ci ha trasmesso un grande consiglio: meno aggettivi si impiegano meglio è. Si rivolgeva, per lettera al fratello, che voleva anche lui diventare scrittore, ma vale per tutti noi. Se ti appresti a descrivere una stanza e ti fermi su ogni singolo mobile, sei perso in partenza: devi limitarti a quel che risulta significativo raggiungere la verità emozionale che vuoi attribuire ai tuoi personaggi. Tutti gli scrittori di racconti, da Katherine Mansfield a Alice Munro a William Trevor senza Cechov non avrebbero potuto scrivere, e questo vale persino per quella incarnazione del racconto americano che è Raymond Carver, a dispetto di tutto l’alcol che aveva in corpo. A mio avviso, quel che importa è non lasciare andare il proprio ego troppo in là: lo devi tenere sotto stretta osservazione, devi sottometterlo all’editor che è in te e che nella fase della rilettura deve saper dire: ah no, questo è troppo, o – più raramente – questo non basta ancora. Lo trovo un esercizio molto eccitante. A volte mi chiedono perché non abbia fatto di un mio racconto un romanzo, e la mia risposta è sempre che sono i materiali stessi della narrazione a dettare la scelta della forma. Se mettendo insieme tutti i racconti di Oggetto d’amore avessi scritto un romanzo avrebbe perso in forza dinamica, mentre Le piccole sedie rosse – il mio ultimo libro – non poteva che avere un respiro lungo, perché lo richiedeva una grande estensione degli argomenti trattati e delle ambientazioni, che si spostano dall’Irlanda a Londra ai Balcani.

Lei ricorda sempre quanto ha preso non soltanto da Cechov, ma anche da Joyce. Le è mai capitato di percepire quella «angoscia dell’influenza» di cui parla Harold Bloom?
Non è qualcosa che mi preoccupi molto per la verità, perché sento di avere un atteggiamento molto disinvolto verso i miei debiti, anche se riconosco quanto la premessa di Bloom sia interessante. Non c’è dubbio che, dopo Cechov, il mio altro grande maestro sia stato James Joyce, un grande genio che ha prodotto anche molti danni in tutti coloro che hanno cercato di imitarlo. Tentare di rubare la brillantezza di uno scrittore senza averne la voce è sempre un errore, per di più del tutto visibile: ti accorgi subito quando manca la scintilla. Sono molti i miei debiti con Joyce, ma mentre l’audacia del suo stile è solo sua e non mi sarei mai azzardata a tentare di imitarla, quel che invece ho preso da lui è una sorta di autorizzazione a avvicinarmi a situazioni e personaggi guardandoli dal basso: solo così, puoi davvero volare. Ho raccontato nelle mie memorie che quando ero ancora una giovane aspirante scrittrice e lavoravo in una farmacia, un giorno trovai in un banchetto di libri usati l’Introduzione a Joyce scritta da T.S. Eliot e fra i brani selezionati c’era la scena tratta dal Ritratto di un artista da giovane in cui viene descritta una tavola di Natale imbandita, vista dagli occhi di un bambino, il piccolo Stephen Dedalus. Quella scena, che Joyce descrive con toni da fiaba, prelude alla grande rottura determinata dalla irruzione nel racconto della politica, del sesso, della religione, tre temi fondamentali. Bene, fu proprio quando lessi quel libro che mi resi conto di quanto il mio modo di raccontare fosse evanescente: non solo mancavo di concretezza ma eccedevo nel numero delle parole che impiegavo. Così, imparai da Joyce a attingere alla vita vera, all’esperienza fattuale. Molti non capiscono che se vogliono descrivere le nuvole devono prima farle entrare in casa. Quanto a chi cerca di imitare lo stile di Joyce, spezzando le frasi e alternadole a altre lunghissime, o ricalcando gli elementi più ovvi senza riuscire a penetrarne i segreti, vorrei ricordare quel che diceva il manifesto di Joyce sulla scrittura: la misura della grandezza di un’opera d’arte è data dalla profondità della sua sorgente. Non parla di variazioni stilistiche, di stream of consciousness, di modernismo, di altri bla bla bla, tutte queste stupide parole di cui si abusa come fossero pezzi di carta usa e getta.

Nel suo ultimo romanzo, «The little red chairs», lei mette in scena un personaggio che ricalca Radovan Karadzic, il criminale di guerra responsabile, fra l’altro, del genocidio di Srebrenica. Il suo ritratto è molto puntualmente ricalcato sui dati biografici che lei ha raccolto: come mai, nonostante i mezzi che la letteratura mette a disposizione di un romanziere, non è stata tentata dal disegnare un personaggio più contraddittorio?
In realtà, ho dato al personaggio del doctor Vlad molte caratteristiche che nella realtà non aveva: l’ho rappresentato come un seducente guaritore, capace di indurre molte illusioni e poi le relative delusioni; ma tutto ciò non è stato il frutto di una tentazione, la mia è stata una strategia deliberata. Molti critici hanno definito il romanzo una sorta di favola, e questo mi ha fatto piacere: mi ci sono voluti quattro anni per scriverlo, è stato un viaggio molto doloroso, davvero penoso, ma al tempo stesso necessario per me. E mi ha riportato a quanto dice Joyce a proposito della profondità che dobbiamo raggiungere in noi stessi quando vogliamo scrivere una storia.

Lei è fra gli scrittori che attribuiscono ai loro personaggi una certa autonomia o è fra quelli che li vogliono del tutto sottomessi alla loro volontà?
È una questione troppo logica per me, e non so tanto come rispondere, perché i miei personaggi e in generale tutto quel che scrivo non sono tanto il frutto di una decisione, vengono piuttosto dal mio inconscio…

Dunque, lei continua a scrivere al mattino perché – come ha detto – si sente più vicina al suo inconscio?
Sì, è così e lo trovo interessante anche se non voglio metterla in modo pretenzioso. Non è come se mi svegliassi da un sogno e continuassi a restare in una dimensione onirica, ma di certo la mia mente è più libera e più vicina al mio inconscio finché qualcuno non bussa alla porta e la mia concentrazione, – così vitale per ogni scrittore e per me tanto facile perdere, non viene alterata. Tutte le persone intelligenti sono ansiose, ma gli scrittori lo sono in particolar modo perché hanno sempre paura di fallire, di perdere quello che è per loro il momento perfetto. Diversamente da un attore, che ha il vantaggio di avere già un personaggio al quale dare vita, e un copione da interpretare, uno scrittore deve essere più umile, perché niente gli è già dato e non può sapere se dal suo interno nascerà qualcosa o meno. Ricorda l’ultima riga del mio racconto «Oggetto d’amore»? Dice: «Aggrapparsi al niente è spaventoso».