Domenico Quirico scrive a penna su un taccuino. Ha una giacca a vento rossa, un berrettino nero. È seduto su una panchina. Accanto a lui qualcuno ha posizionato un kalashnikov. È una delle immagini di Ombre dal fondo un film di Paola Piacenza che verrà proiettato oggi alle Giornate degli Autori (ore 11.30 Sala Perla). È un frame che rappresenta a pieno la «poetica» del giornalista de La Stampa, protagonista del film, storico inviato in zone di guerre e rapito per 152 giorni dai ribelli siriani nel corso del 2013. Quirico parla di conflitti, di vite, di vite degli altri, di quelle della sua famiglia, specchiate nella sua esperienza.

E parla di giornalismo affermando – tra le altre cose – di non riconoscersi più granché nel giornalismo contemporaneo. Del resto, come afferma all’inizio del film, fare giornalismo per lui è come «calarsi all’interno di un pozzo, sperando di uscirne portando con sé più cose possibili di quanto si è visto».

Il problema, però, non è solo scendere e salire. Ma tornare in quel pozzo, dove si pensava addirittura di essere stati uccisi. Quirico ricorda la sua esperienza di prigionia e racconta: «A un certo punto, durante la prigionia, ho cominciato a pensare che in realtà quando ci avevano preso e ci avevano sparato, mi avessero ucciso, che io fossi morto senza accorgermene. E che quello che stavo vivendo fosse l’inverno». Quella di Quirico è stata un’esperienza che traccia una linea, umana, professionale, famigliare; una vicenda che incide un «prima» e un «dopo».

Paola Piacenza, la regista del documentario, indaga proprio il «dopo», finendo per portare il giornalista nella città dove è stato rapito. Quirico riconosce la stanza dove ha trascorso le giornate da sequestrato, all’interno di una piccola casa che oggi è ancora in piedi.

Il racconto presenta diversi interrogativi che diventano tracce di linee narrative all’interno del documentario. Come dire ai propri cari che si vuole tornare in Siria?

Questo «dilemma» è anche quello del giornalismo vecchio stampo, dove la voglia di toccare con mano, capire e vedere è più forte di tutto. Si possono fare molte acrobazie retoriche per giustificarsi, ma c’è una molla inspiegabile che spinge a raccontare «il rumore del mondo». Giornalismo «come forma del dolore» dunque, ma non per questo opera desueta o anacronistica. Anzi: l’esperienza di Quirico, quella professionale, è un ottimo esempio di come ancora oggi la differenza in questo mestiere è data dalla conoscenza dei luoghi, dallo studio delle culture di quei posti e soprattutto dal fatto di andarci.

I social network hanno messo in testa a molti che si possa seguire tutto quanto accade nel mondo attraverso la semplice «intermediazione»: non è così e in ogni caso ci vuole sempre qualcuno che ci vada, che sia preparato, che sappia di cosa sta parlando che si faccia «occhi per altri occhi». Il film di Piacenza, dunque, è una lezione di giornalismo nell’epoca dei tuttologi e di chi ha un’opinione un tanto al chilo.

Con un accorgimento «umano», perché il giornalista non può vivere in completa solitudine: «che miseria che fallimento umano. Puoi essere un buon giornalista se hai un ricco mondo interiore al di fuori di quello che si deve raccontare, altrimenti il rapporto con la realtà diventa sterile, non mi piacciono gli ossessionati dal giornalismo».

Quirico è rigoroso, serio e non è un credulone. Quando sta per tornare in Siria lo sottolinea: tutte le pratiche burocratiche quasi lo infastidiscono. Ma sa bene che lui stesso può essere utilizzato: la sua presenza lì permetterà ad Assad di «presentarmi come il sequestrato ex sostenitore dei ribelli, che ha avuto modo di sperimentare sulla sua pelle quanto era stato coglione».