Dieci anni fa, quando uscì la prima edizione del «Meridiano» delle sue Opere, si poteva parlare di Raffaele La Capria come scrittore acquatico: le sue pagine, fino a quel momento, erano percorse da avvenimenti che formavano un mito privato, esteso ai lettori di medesimo sentire. La Capria aspirava alla più visiva delle caratteristiche dell’acqua, la trasparenza, dopo aver conosciuto anche acque dal fondale torbido.
Già la sua prima stagione, segnata da un capolavoro, Ferito a morte, appena conclusa dà avvio al lungo viaggio verso la trasparenza, che consiste nella sottrazione di qualcosa. La Capria si persuade presto che un’opera d’arte deve funzionare da sé, e si svincola dalle astrazioni a vantaggio del manufatto, dove scioglie il suo tratto autobiografico, moltiplicandosi nei suoi personaggi: quanto sembrava un resoconto individuale si trasforma in un romanzo di idee. Con l’autocommento, via via compone un libro dell’esperienza orientato dal senso comune.

Dunque l’opera di La Capria nella sua prima parte subacquea è segnata dalla scena onirico-palombara che apre Ferito a morte, con spigola e fiocina; nella seconda sta a pelo d’acqua, oscillando tra sopra e sotto, per esempio con l’idea, in Letteratura e salti mortali, che un racconto ben riuscito è come un tuffo senza spruzzi: il salto è complicato ma l’impatto con l’acqua è in perpendicolare, naturale o in una simulazione di naturalezza, come detto in Lo stile dell’anatra. Un lettore, incontrando La Capria col suo cane Guappo, ebbe l’impressione che fosse il cane a portare il padrone: nel Candido che ha attraversato l’opera di La Capria, sono state le cose i fatti gli esseri viventi (uomini, animali, città) a portare le parole, non viceversa. Da Capri e non più Capri: «Una piccola spiaggia di sassi bianchi nascosta tra i chiari anfratti cilestri e gli scogli bordati di sottili trasparenze sottomarine. Il mare rotola i sassi, e i sassi strisciano col rumore secco del ghiaccio tritato. È il solo rumore scandito dal ritmo lieve dell’onda, vitrea all’abbrivio. Ogni sasso è liscio come un uovo, duro e compatto, levigata perfezione senza residui, che incanta. Trovare parole simili a questi sassi, precise e in sé concluse, fatte per dire solo quello che dicono, inventare un modo di disporle casuale e armonico come la bellezza di questa spiaggia: fu il primo breviario di estetica qui appreso». La stessa lezione si sarebbe poi trovata nell’incontro con un canarino. Il Candido accennato lascia vedere, sotto l’opera, la vita di chi l’ha scritta: «Chiamiamolo Candido. Classe 1922. Nasce da una famiglia di media borghesia, in un ambiente di media cultura, in una città di media importanza: lui stesso diciamo che è di media intelligenza. Per una non trascurabile fatalità nasce con lui anche il fascismo». La gran dote di Candido è il senso comune, dunque: che in realtà è il ritrovamento di un senso che è stato o sarà comune, ma che al momento va spesso contro corrente, come il salmone quando perde peso; e in stile «libero», risultante di regole precisissime, animate dall’attenzione, dalla perplessità e da logiche severe.

Un altro tema dominante, lo scontroso incontro tra natura e storia, sta in Posillipo ’42: «Negli anni che seguirono quell’estate del ’42, gli anni della guerra e poi della pace, gli anni del mio cammino nel mondo, non trovai più lo stato di grazia di allora, quello mio e quello del mare, fu perduto per sempre il mio equoreo Eldorado. Da allora in poi fu continuo il decadere della bellezza, un continuo inarrestabile scadimento; e se ancora qui ricordo quell’estate del ’42, è perché la guerra, con tutti i suoi lutti e le sue rovine, alla fine è passata. Ma la degradazione di cui parlo si è diffusa sempre più, si è estesa a macchia d’olio. E così da quell’estate il mondo è per me diviso in due: quello di prima del ’42 e quello di dopo il ’42. E mi accorgo che quell’estate fu davvero insolita, fu non solo una tregua ma uno spartiacque fra due epoche che si dissero addio per sempre, e dunque anche per questo fu memorabile: ma in nessuna storia questo fu registrato». Dove si mostra che l’attività dello storico non è diversa da quella del libero scrittore, e che la storia è, in chi l’ha vissuta, una questione di confini, di contorni e di conoscenza, come per la mosca nella bottiglia. All’inizio del quarto capitolo di Ferito a morte sta scritto: «La vacanza è una specie di rottura con la realtà, una evasione dalla storia, e solo la Storia ha un senso. Ma intanto il richiamo insensato attraversa il silenzio del mattino, come uno spiro di vento. Il vento che ti sfiora, come dice il verso?». Cogliere il passato mentre si fa storia, sapendo che l’uno e l’altra sono la vita e la bellezza in fuga. In questo sentimento di partecipazione e di simpatia verso le cose, la storia diventa commozione per la bellezza minacciata.

Il «Meridiano» torna ora in due volumi, aumentato e riorganizzato, e festeggia i novanta anni del Maestro (Opere, a cura di Silvio Perrella, Mondadori, pp. CV-2445, euro 110,00). Settecento pagine in più: il nucleo che raggruppa gli scritti più recenti è un’indicazione che può servire a ritroso per evidenziare un altro tono in La Capria. Della genesi, del contesto e di molto altro, danno conto gli apparati che, in stretta collaborazione con l’autore, ha curato Silvio Perrella. Nella solare introduzione, che ripercorre la vicenda di La Capria con un tono critico che respira allo stesso modo dell’autore, «Il mondo come acqua», riproposta con importanti aggiunte, scorrono ancora i grandi miti di La Capria, dalla bella giornata all’armonia perduta di Napoli, al suo mare: «resta sempre vicino all’idea del mare – è l’esortazione di Anna Maria Ortese a La Capria –, voglio dire del mondo come acqua. Solo lì è gioia».

La sezione L’amorosa inchiesta è il diapason del tono che si diceva: oltre al libro omonimo comprende, tutti degli ultimi anni, L’estro quotidiano, A cuore aperto e Doppio misto, dove incandescenti vicende personali, riguardanti il corpo e l’eros, l’amicizia e la malattia, diventano, da testimonianza, meditazione sull’esistenza di ognuno. È qui il segno che la lunga traccia autobiografica, filigrana dell’opera di La Capria, inesausto autocommento all’opera e alla vita, diventa, in figura e in lettera, affresco di umane vicende. Con serenità non innata, ma inseguita con lungo esercizio nel corso del tempo, La Capria dà conto dello stato dell’uomo ferito a morte ma in vita: una commedia umanissima che riguarda lo stato delle anime su questa terra, una rappresentazione sorretta dallo spirito di Montaigne e di una giovinezza esperta o, che è lo stesso, da un’esperienza traboccante di gioventù.

Perrella mostra come impazienza e immaturità, ansia e tentazione del fallimento siano ciclici (esempio: Amore e Psiche ritorna nella lettera alla figlia e nelle pagine su Roma). Dunque, ciò che fa nuovo questo «Meridiano», oltre il senso delle pagine aggiunte, è la risistemazione dell’opera secondo un preciso progetto di insieme, in cui nessun titolo finisce per corrispondere più al libro originario. Esercizi superficiali diventa un palinsesto che raduna le prose brevi: e idealmente conclude il secondo tomo, aperto dalle narrazioni brevi di Fiori giapponesi, in corrispondenza; e in Sentimento della letteratura compare ora coerentemente La lezione del canarino; in Capri e non più Capri la prosa sulla Piazzetta e così via, in modo da consegnare al lettore un’opera già classica del nostro Novecento in forma nuova e memorabile.