In un’edizione di Cinema ritrovato così ricca di stimoli non c’è un criterio oggettivo per determinare di quali titoli occuparsi e quindi andiamo a gusto, anzi a piacere, e trattiamo prima di tutto della variegata retrospettiva dedicata all’attività produttiva di Carl Laemmle jr. , figlio del fondatore della (allora) mini major Universal, messo a capo del settore produzione poco più che ventenne, al comando dal 1928 al 1936 (quando l’aver sforato di grosso il budget per Show Boat fece cadere la casa nelle mani dei creditori). Il periodo della sua attività è straordinario non solo per le sue scelte creative, quasi spericolate, ma perché segue di pochi mesi l’avvento del sonoro e precede l’imposizione del codice di autocensura, ed è quindi in gra do di cogliere i frutti del muto maturo e allo stesso tempo aperto alle sperimentazioni produttive e narrative che lo scarto tecnologico del suono incoraggiava.

 
Tra i film da lui prodotti l’attesissimo musical The King of Jazz ultra spettacolare anche per l’utilizzo del procedimento a due colori Technicolor, che anticipa di quasi vent’anni gli sfolgoranti musical della MGM. Il film è una rivista di lusso, nel senso letterale: è un librone sfogliato per proporre numeri musicali dalle colossali scenografie, balletti coloratissimi e sketch comici al limite dell’assurdo. Comincia con un divertente cartone animato che racconta come il jazz sia nato in Africa, ma poi se ne dimentica e la negritudine sparisce, tranne per un istante quando il direttore d’orchestra Paul Whiteman (nomen omen) tiene in braccio una bimbetta africana. Trionfo del kitsch anche ideologico è il balletto che celebra il jazz come melting pot musicale, in cui avanzano plotoni di ballerini in coloratissimi costumi nazionali, dagli scozzesi ai francesi, dai tedeschi e giustamente a rappresentare l’Italia ai napoletani, ma nessuno di colore. Insomma neanche mettere con un frizzante e dinamico backstage musical della Warner, ma The King of Jazz resta comunque un must, doverosamente restaurato.

 

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Due autentiche perle nella sezione Laemmle jr. i due film «giovanili» di William Wyler, A House Divided e The Good Fairy. Nel primo un magistrale Walter Huston è un rude pescatore e padre padrone che si prende in casa una sposa per procura che però si innamora del suo sensibile figlio. Avventatosi concupiscente sulla ragazza, il bruto cade dalle scale e diventa paralitico ma determinato com’è continua a muoversi, strisciando come neppure Lon Chaney nelle sue interpretazioni più inquietanti sapeva fare.

 
Più interessato alle tempeste dell’anima che al contrasto uomo/natura che pure si percepisce nelle scene in mare, il film è caratterizzato da fluidi movimenti di macchina e da un uso dello spazio che diventa successivamente la firma registica di Wyler. Nelle sue corde anche la commedia The Good Fairy, scoppiettante sceneggiatura di Preston Sturges tratta da una commedia ungherese di Ferenc Molnar, in cui un’ingenua orfanella (Margaret Sullavan), protetta da un cameriere e assediata da un ricco imprenditore, finge di concederglisi se faràdiventare ricco un uomo scelto a caso, che giura essere suo marito, interpretato da un Herbert Marshall, quasi al livello di Mancia competente.

 
Un altro bel personaggio femminile Stella Dallas, film muto proiettato con una vecchia macchina a carboni, in una piazzetta Pasolini affollata all’inverosimile sia per godersi l’emozione di una proiezione che conferisce al film una brillantezza luminosa eccezionale, sia per vedere questo melodrammi classico. Sceneggiato dalla maestra del muto americano Frances Marion e diretto da Henry King, ha al centro una donna ordinaria (Belle Bennett) diciamo pure volgarotta ma dal cuore d’oro, che rinuncia alla custodia della figlia per permetterle di vivere nella famiglia altolocata del padre (Ronald Colman) fino ad assistere al suo matrimonio di nascosto, dietro a una finestra, barriera fragile che marca le differenze di classe ma lascia filtrare l’amor materno, che doveva essere sacrificio. La regia leggera di un King che non scade nel piagnisteo ne fa una Stella Dallas migliore della Barbara Stanwyck della versione sonora (e della più recente Betty Midler).

 
Di Modern Times «si è giàdetto tutto», ma val la pena di accennare alla serata magica con l’orchestra del comunale in Piazza Maggiore, con gente arrampicata ovunque, famigliole intere sedute sul selciato, passanti affascinati con la bici a mano. Stranoto per la sua critica alla meccanizzazione dei tempi moderni, oggi le gag che fanno ancora ridere sono i geniali piani sequenza come quando Charlot consegna integro un vassoio stracolmo attraverso un ristorante affollato di gente che balla. Il finale in cui il Vagabondo si allontana non più da solo ma con la Monella verso l’orizzonte, segno di un Chaplin che stava cambiando temi e personaggio, è l’icona che illustra le ricercatissime borse del festival quest’anno.

 

1VISSINfotopiccolaPola_Negri_in_St_Clair_Woman_of_the_world_1925_01

Messo al bando dal nazismo Westfront 1918 di Pabst, è stato difficoltosamente restaurato, confermandosi film di guerra durissimo, di un realismo scarno, quasi macabro: realizzato agli inizi del sonoro, propone i rumori della guerra con un’efficacia drammatica intensificata. Le impietose carrellate lungo le trincee e nella chiesa diroccata dove si soccorrono i feriti sono state riprese poi da Kubrick in Orizzonti di gloria.

 
Brillante esordio del britannico Anthony Asquit, Shooting Stars è un cinico film di ambientazione cinematografica: in una casa di produzione ancora muta una giovane star sposata con un attore belloccio, recita con lui in un western di maniera, mentre nello studio accanto lavora un noto affascinante comico, di cui si è innamorata e col quale vorrebbe fuggire a Hollywood, ma la vicenda si chiude tragicamente con un fucile che dovrebbe essere caricato a salve. In A Woman of the World la star del muto Pola Negri interpreta la contessa italiana Natatorini che per una delusione d’amore si rifugia a Maple Valley nella provincia americana dove scandalizza (ha un tatuaggio) e allo stesso attrae i cittadini, compreso il rigidissimo District Attorney. Quando i parenti la presentano «in società» le bambine che dovrebbero accoglierla indossano un gonnellino fatto dalla bandiera sabauda ma tutto si svolge come se fosse francese: continentale è sempre un concetto vago negli Usa.
Nella sezione dedicata al 1916, una di quelle che ha riservato le sorprese migliori, Vingarne (Ali) di Mauritz Stiller, primo adattamento, maturo e sobrio, del Mikael reso famoso poi da Dreyer in cui un vecchio artista «adotta» un pittore di talento, il suo Icaro cui dona le ali (ovvero la ricchezza) che lo distruggeranno, attraverso la seduzione di una contessa che dilapida il patrimonio.

 
Presentandolo Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, ha definito El puno de herro un film anticlassico. Questo bizzarro feuilleton messicano infatti narra di banditi, di droga e di avventura, con un ragazzino infatuato dei dime novels Nick Carter che investiga la banda, un medico che conduce una campagne per mostrare i nefasti della droga, puntualmente proposti sullo schermo in ributtanti deformità, ma in realtà è il capo della banda degli spacciatori.
Realismo e grottesco sono ingredienti che sembrano marcare il cinema messicano fin dalle origini, come la scia bianca delle polverine che va da questo film all’intenso Te prometo anarquia, a confermare il ruolo che questo commercio gioca da tempo nell’economia del paese.