Le polemiche intorno alla Rai legate alle dimissioni di Verdelli, nonché quelle recentissime nate dalle dichiarazioni di Merlo a Lucia Annunziata, rivelano l’esigenza di una riforma ‘vera’ del servizio pubblico, che lo metta definitivamente in sicurezza dai partiti. Al di là del merito delle vicende di questi giorni.

Tali vicende hanno riguardato professionisti di valore, e forse proprio per questo, risalta nettissimo e ineludibile il problema di fondo: quello di una legge che collochi la Rai, e le sue scelte culturali e commerciali, al riparo dalle intrusioni delle forze politiche e del governo. Purtroppo la strada praticata fino ad ora da tutti i premier negli ultimi 20 anni, fossero di destra o di sinistra, (ad eccezione forse di Monti, che sulla Rai fece altri errori, però), è stata quella di non voler recidere questo legame perverso.

Matteo Renzi, che già all’esordio della sua avventura politica aveva affermato di volere una Rai autonoma, quando si è trattato di operare ha preferito gettare acqua sugli ardori giovanili e, invece di chiedere lumi al suo amico Gentiloni (ministro della Comunicazione nel 2006-2008 ed autore al tempo di una buona proposta di legge), ha varato una controriforma che ha finito per rinsaldare proprio quel perverso legame, riportando, tra l’altro piuttosto maldestramente come i fatti accaduti hanno dimostrato, il Cda dell’azienda sotto l’ala dell’esecutivo.

Eppure lo stesso vituperato Bersani da segretario Pd, nel 2012, al momento del rinnovo del Cda Rai si era rifiutato, con inedito gesto politico, di fare designazioni di partito per il Cda, chiedendo alla società civile e alle sue associazioni di farlo in sua vece: erano venuti fuori, così, i nomi di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi.

Sembrava un nuovo inizio visto che era la prima volta che da sinistra qualcuno si spendeva per una battaglia simile (tra l’altro di corto momento, visto che pochi giorni dopo sempre Bersani ribaltava quel metodo, riabbracciando la logica della spartizione, per le nomine all’Autorità per la privacy). Nonostante questo, però, quel gesto era sembrato comunque preludere ad una raggiunta consapevolezza di dover sottrarre finalmente viale Mazzini agli appetiti dei partiti. Impressione purtroppo quanto mai errata, ed oggi, a cinque anni da quel passaggio pur contraddittorio, stiamo ancora a porci il tema, arci-vetusto e pluridecennale, della autonomia della Rai. Forse, adesso, dopo il caso Verdelli, l’ex ministro della Comunicazione di Prodi, Gentiloni, diventato capo del governo, finirà suo malgrado col convincersi che è giunto il momento di rimettere il naso nella questione televisiva.

Quest’ultima si è fatta, infatti, oltremodo delicata e rischia, se non affrontata, di provocare effetti collaterali non proprio favorevoli sia alla compagine governativa che al partito democratico. E il fatto che l’amministratore delegato dell’azienda Campo Dall’Orto racconti beatamente al Corriere della Sera di avere “ricevuto un mandato” dal capo del governo (senza nemmeno pensare che il ruolo che occupa gli imporrebbe altro riserbo), la dice lunga sulla crisi di credibilità che il “servizio pubblico” corre, se lasciato nelle mani del potente di turno. La stessa vicenda Vivendi-Mediaset, oggi più che mai, chiama fortemente Gentiloni a battere un colpo su una materia assolutamente cruciale per l’equilibrio democratico del paese.

Come la qualità della raccolta del consenso fa la qualità del politico eletto (lo diceva il compianto Libero Grassi in una vecchia Samarcanda), anche la qualità dell’informazione fa la qualità di una democrazia.. Il fallimento dell’ultima gestione renziana della Rai più che nelle responsabilità dell’ex premier e dei suoi sodali (che ci sono, eccome), risale in primis al nodo irrisolto della mancata riforma dell’ente, quel nodo su cui anche Renzi, come i predecessori, non volle incidere e che ora è arrivato il momento di sciogliere. Sarebbe proprio il caso di affermare: se non ora, quando?