Non è passato molto tempo da quando Ahmed Abdallah, responsabile della Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf), è stato liberato su cauzione dal carcere in cui ha trascorso 5 mesi. Abdallah, insieme alla Ecrf, ha da subito seguito il caso Regeni come consulente della famiglia di Giulio.

Nonostante il rilascio l’attenzione del governo non si spegne: giovedì scorso gli uffici dell’associazione sono stati presi di mira dai servizi segreti del Cairo. Quattro uomini, in abiti civili, si sono identificati come funzionari del Ministero degli Investimenti e hanno provato a perquisire la sede dell’associazione, da anni impegnata nel documentare le sparizioni forzate.

I quattro hanno rifiutato di mostrare le carte di identità, ma Abdallah ha riconosciuto almeno un poliziotto: «Per molto tempo non hanno preso di mira l’Ecrf, ma solo me. Ora è venuto il momento dell’associazione», ha detto al Guardian. Tutti avvinghiati dai tentacoli del sistema di repressione egiziano, gli stessi che stringono ancora Abdallah: sebbene sia stato rilasciato il 10 settembre, resta indagato per incitazione alla violenza e tentativo di sovvertire il governo.

In realtà – lo dimostrano le domande su Giulio che i servizi gli hanno ossessivamente posto durante gli interrogatori – l’interesse del regime era per il caso Regeni. Venerdì a tornarci sopra è stato il presidente del parlamento, Ali Abdul Aal, per ribadire la natura della cooperazione con gli investigatori italiani: piena e trasparente, la definisce. Eppure a quasi due mesi dall’ultimo vertice tra procure, quando quella egiziana ammise per la prima volta che la polizia investigò («per tre giorni») su Giulio, tutto tace.

Quasi tutto. Come ripetuto da Amnesty e dalla famiglia Regeni, la verità è al Cairo. Ed è lì che si stanno generando nuovi movimenti anti-governativi. A scatenarli è la crisi economica: gli egiziani che gridavano «pane e libertà» in piazza Tahrir hanno visto peggiorare ancora le proprie condizioni.

La popolazione lotta per sopravvivere e le manifestazioni, seppur ancora limitate, emergono dal silenzio imposto dal Cairo: lo scorso martedì in migliaia sono scesi in strada a Port Said per protestare contro l’aumento vertiginoso degli affitti. «Dateci una casa o uccideteci. Via il regime, via l’esercito», gridavano i manifestanti mentre su Twitter si moltiplicavano i post con l’hashtag #PortSaidRises, Port Said si solleva.

Nel resto del paese, con la classe media sta scomparendo (secondo un rapporto del Credit Suisse Research Institute si è ridotta del 48% tra il 2000 e il 2015) e un tasso di povertà in costante crescita, oggi al 27,8%, in tanti si cercano un secondo lavoro per coprire l’aumento del costo della vita. Parlano i numeri: l’inflazione è al 14% e la sterlina egiziana sarà ulteriormente svalutata, forse del 40%.

«La gente come me che ha a che fare con la vendita al consumatore sente ancora di più l’inflazione – dice ad al-Ahram Ahmed Disouki, proprietario di due ristoranti di felafel – Non posso alzare troppo i prezzi perché non voglio perdere i clienti, ma i costi salgono».

Bollette cresciute del 25-40% ad agosto, salari in calo, sussidi già tagliati: i prestiti delle istituzioni finanziarie internazionali prevedono un’austerità che colpisce le classi basse e i prodotti più acquistati, farina, olio, fagioli. Una situazione resa più grave dal fatto che l’Egitto importa 60 miliardi di dollari l’anno in beni di consumo, il cui costo aumenta con la svalutazione della sterlina.

E per i prodotti interni? Ieri le maggiori società alimentari egiziane hanno sospeso la produzione dopo che il governo ha ordinato la confisca di duemila tonnellate di zucchero della compagnia Edita, quantità utile a coprire tre settimane di consumi in un periodo in cui i beni di prima necessità non affollano certo i mercati.

Sullo sfondo restano i timori per l’11 novembre, data della manifestazione organizzata da una nuova campagna, Ghabala Movement. Chi ci sia dietro non è del tutto chiaro, tanto che gli stessi movimenti egiziani come 6 Aprile e Fratelli Musulmani rifiutano la protesta perché – dicono – gestita da egiziani all’estero, in Turchia e nel Golfo, mossi e finanziati da poteri stranieri.