Lunedì è stato il giorno peggiore a Gazi: i residenti hanno provato ad innalzare barricate per impedire alla polizia di entrare. Non ci sono riusciti: i poliziotti turchi hanno avvolto il quartiere di Istanbul con i gas dei lacrimogeni, contro chiunque tentasse di affacciarsi in strada. Da lontano, dicono, si potevano vedere nuvole bianche sovrastare i tetti delle case.

Non uno spettacolo inedito a Gazi, dove vive la minoranza religiosa più numerosa della Turchia, quella alevita. Derivazione dello sciismo, influenzata dal sufismo, nonostante rappresenti il 10-15% della popolazione totale (tra i 7 e i 10 milioni di persone) è target delle varie autorità turche che si sono succedute da Atatürk in poi.

Il “padre dei turchi” fu sostenuto all’inizio dalla comunità che si vide riconoscere pari diritti, prima negati dall’impero ottomano. Ma gli anni immediatamente successivi sono stati segnati da repressione e massacri, fino a quello del 1995 quando attacchi armati ad alcuni cafè spalancarono la strada a giorni di scontri che uccisero 23 persone.

Con il regime dell’Akp la situazione non è migliorata: la “sunnizzazione” della società è stata il volto della sua più generale islamizzazione. E gli aleviti ne restano fuori. Per motivi religiosi, ma anche etnici e politici: per metà di etnia kurda, radicata classe operaia, sono tradizionalmente sostenitori di movimenti marxisti-leninisti e vicini al Dhkp-C, Partito Rivoluzionario dei Popoli, movimento di estrema sinistra messo al bando in Turchia. Lo storico laicismo alevita e le aspirazioni di uguaglianza sociale li hanno fatti transitare dal kemalismo della prima ora al socialismo.

Da anni i blindati della polizia fanno la ronda nel quartiere-roccaforte di Istanbul, una presenza che si abbina ad un’assenza: quella di servizi sociali e pubblici costanti e di qualità. Ma nelle ore successive al tentato golpe del 15 luglio, un surreale silenzio è calato a Gazi: le forze di sicurezza erano impegnate altrove.

La calma è durata poco. Le tensioni con la polizia, che invade con regolarità i quartieri aleviti, hanno subito un’evoluzione drammatica: seppur lontani per ovvie ragioni dall’imam Gülen, capro espiatorio del golpe, la comunità è stata etichettata come complice.

E se molti degli epurati da magistratura e uffici pubblici sono aleviti, a preoccupare ora sono le squadracce di picchiatori che fanno la ronda nelle città turche. Sostenitori del presidente Erdogan vagano per le strade alla caccia di “traditori” da punire. Già all’indomani del fallito putsch, in mille hanno preso d’assalto Gazi, scontrandosi con i residenti. «L’Akp è qui, dove sono gli aleviti?», gridavano mentre entravano con le auto nelle strade e tra le case.

Non ottenendo protezione dalle forze di sicurezza, gli aleviti provvedono da soli organizzando squadre di difesa. La costante chiamata alla piazza da parte dei vertici governativi – che spingono la base a mostrare la propria esistenza a Istanbul come Ankara – per gli aleviti è sinonimo di violenze. «Noi non siamo a favore del golpe – dice ad Al Jazeera il 29enne Arif Kavak – Il tentativo di colpo di Stato ci ha preoccupato perché ne abbiamo esperienza, ne deriva sempre qualcosa di peggio».

Kayak è uno dei giovani che hanno aderito al comitato di difesa locale del quartiere, creato per rispondere alle squadre, spesso armate, di pro-governativi. «La gente ha iniziato a creare unità di auto-difesa per proteggersi dai raid dell’Akp – aggiunge Ertugrul Kurkcu, parlamentare dell’Hdp, partito di sinistra pro-kurdo – I gruppi più vulnerabili sono le donne, gli aleviti e i kurdi».

L’inquietante parallelismo – violenza militare e violenza “civile” – trova la sua rappresentazione fisica in piazza Taksim. Il luogo della rivolta anti-governativa di tre anni fa, simbolo del movimento anti-liberista ed ecologista di Gezi Park a cui gli aleviti parteciparono, è oggi preda di ben altra campagna. È il teatro dell’esaltazione dell’uomo forte, del presidente-sultano e della sua congrega di sostenitori che legge nelle purghe di massa l’equazione tra stabilità e repressione del “diverso”.

È qui a Taksim che da venerdì notte migliaia di persone, gambe e braccia di Erdogan, si riuniscono per bruciare fantocci di Gülen, inebriarsi di nazionalismo e (alcuni di loro) far partire i raid. Dopotutto Gazi è lì vicino, a pochi passi. Come lo è l’insanabile spaccatura di un paese già diviso dalle politiche dell’Akp che di polarizzazione si alimenta.