Ieri, raro come una stella cadente nel cielo della stampa mondiale, nei quotidiani è apparso lo Yemen. Il mondo si è ricordato che nel paese più povero del Golfo è in corso una guerra da un anno e cinque mesi. Oltre 500 giorni di conflitto, quasi 10mila morti, 2,8 milioni di sfollati, 20 milioni di persone con necessità immediata di aiuti umanitari.

A ricordarlo è stato il bombardamento di un ospedale gestito da Medici senza Frontiere da parte dei jet della coalizione a guida saudita che ha lanciato alla fine di marzo del 2015 l’operazione “Tempesta Decisiva”. Nei video girati sul luogo della strage – 14 morti, 24 feriti – si vede la struttura dalle mura azzurre e bianche, o quello che ne resta: i soccorritori girano tra le macerie ancora fumanti, portano via i feriti reggendoli su lenzuola, a terra sangue e corpi senza vita.

L’ospedale colpito si trova nel nord-ovest dello Yemen, nella provincia di Hajjah, controllata (come buona parte della zona settentrionale dello Yemen) dai ribelli Houthi: «Ancora una volta siamo testimoni delle tragiche conseguenze di raid su un ospedale – commenta Teresa Sancristobal, manager del programma emergenza di Msf in Yemen – Un ospedale funzionante, pieno di pazienti e di staff locale e internazionale è stato bombardato».

Funzionante e necessario: da luglio 2015 ad oggi, la clinica ha curato 4.611 pazienti, tra pronto soccorso, reparto maternità e reparto chirurgia. Ha curato i feriti della guerra senza quartiere dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati, in prima fila Emirati Arabi e Egitto.

È la quarta volta che una struttura di Medici Senza Frontiere viene colpita. Riyadh non commenta. In genere quando lo fa, dice di voler aprire un’inchiesta – di cui poi non si ha notizia – o nega il proprio coinvolgimento. Come nel caso della scuola di Saada, centrata sabato, 14 bambini uccisi: «Abbiamo colpito un centro di addestramento dei ribelli», insiste il comando operativo.

Non è la prima volta che l’Arabia Saudita, impegnata contro il movimento ribelle Houthi (e indirettamente contro l’Iran, accusato di sostenerli), colpisce ospedali. È successo svariate volte, nonostante le organizzazioni internazionali attive nel paese dichiarino costantemente le proprie coordinate.

Come è successo che siano stati centrati case, scuole, mercati, fabbriche. Un massacro quotidiano che non trova spazio nelle colonne dei quotidiani occidentali.

Forse perché le armi per distruggere lo Yemen (che Riyadh vuole riavere pienamente indietro, succube ma strategico cortile della monarchia Saud) gliele vendiamo noi. Le campagne delle società civili europee si moltiplicano, senza riscontro. Eppure la petromonarchia è terza al mondo – dopo i giganti Usa e Cina – per spese militari. Oltre 87 miliardi di dollari all’anno con il quale acquista in tutto il pianeta armi che invia a gruppi jihadisti nella regione o utilizza direttamente in Yemen.

Il 12 agosto riportavamo su queste pagine del nuovo accordo di vendita siglato da Washington con Riyadh: il Dipartimento di Stato ha autorizzato la vendita di armi da 1,15 miliardi di dollari, che si aggiungono alla pila di equipaggiamento militare venduto dall’Europa.

Secondo la campagna britannica Caat (Campaign against Arms Trade) dal 2012 al 2014 i paesi Ue hanno venduto all’alleato saudita armi per un totale di 11 miliardi di dollari. In prima linea ci sono Francia, Italia e Regno Unito.

Londra, in particolare, è nel mirino per il costante flusso di armi che fa arrivare all’esercito saudita: nei primi 12 mesi di guerra in Yemen, fino ad aprile 2016, ha fornito armi per 4,2 miliardi di dollari. L’ultima vendita è stata siglata dopo che il parlamento Ue aveva chiesto agli Stati membri di sostenere un embargo militare nei confronti di Riyadh.

Non si salva neppure l’Italia: nel 2015 Roma ha autorizzato l’esportazione di 257 milioni di euro in armi, il 58% in più del 2014 quando toccò quota 163 milioni. E non si salva la Nato: su queste pagine, il 28 luglio, riportavamo i risultati dell’inchiesta di Birn e Occrp, secondo la quale Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Montenegro, Romania, Serbia e Slovacchia (tutti membri del Patto Atlantico, eccezion fatta per Bosnia e Montenegro) hanno inviato nel Golfo 1,2 miliardi di dollari in armi, di cui ben 826 milioni ai Saud.

Una potenza di fuoco che fa il paio con il potere di lobby che i sauditi hanno sulla scena internazionale. Lo si è visto a giugno quando le pressioni dell’Arabia Saudita e dei paesi dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica – che hanno minacciato l’Onu di tagliare i fondi alle sue agenzie umanitarie – hanno costretto il Palazzo di Vetro a stracciare il rapporto che accusava la coalizione impegnata in Yemen di violare i diritti dei bambini.