Pur lasciando da parte la nostalgia, accantonata in una riserva recinta, di modo che non abbia interferenze sul presente; e pur lasciando da parte la consapevolezza che, nella selezione per raccontare il passato, si finiscono per ometterne storture, arbitrî, ingiustizie e perfino violenze; pur ciò lasciando da parte, non mancano occasioni per confrontare l’università italiana come fu e come è, geneticamente e antropologicamente mutata da una riforma l’anno, che ogni volta si prende l’incarico di peggiorare il peggiorabile. Insomma: prima di essere una modulistica da compilare, di statistiche, di scadenze, ci fu un tempo in cui – sembra un’ovvietà e rischia di non esserlo più – l’università fu luogo di studio, di ricerca, di insegnamento: di trasmissione e di incremento del sapere, anche attraverso incontri con maestri d’eccezione. È una delle cose che non si riescono a scostare dallo sguardo leggendo Camminare nel tempo di Ezio Raimondi, una conversazione con Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti svoltasi nel 2005 a Bologna, nella cui Università Raimondi (1924-2014) tenne a lungo la cattedra di Letteratura italiana; e ora pubblicata dal Mulino, la casa editrice bolognese con la quale ebbe un intenso e fecondo rapporto (pp. 205, euro 15,00).

Il titolo della conversazione si riaggancia all’ampia sistemazione antologica dell’opera di Raimondi pubblicata in tre volumi per il settantesimo compleanno sotto il comune titolo I sentieri del lettore. E infatti Bertoni e Zanetti ricordano nella postfazione che il conversare camminando fu una delle attività predilette dal loro maestro, non sappiamo se dovuta, come nell’amatissimo Manzoni, alla necessità di esorcizzare, col camminare, acute nevrosi e gravi melanconie. Si prova a immaginarla, la giornata ideale del Professore: letture ampie e intense, lezioni, camminate, incontri con allievi più anziani, conversazioni. Prima, dunque, la lettura: come incontro con uomini di altro tempo e di altro spazio (Bachtin, Curtius, Auerbach…), accostati ai maestri frequentati in vita, da Calcaterra a Pasquali da Longhi a Contini; ma lettura anche come uscita dalla solitudine, come salvezza pur dentro i confini che la biologia o il destino hanno posto a condizione di ogni uomo.

La lettura è un fatto avventuroso, un incrocio tra caso e progetto non sempre spiegabile, come non si spiega perché si leggano certi libri e non altri, né come mai certi libri altri ne attraggano, e neppure perché si finisca per studiare un autore e non un altro. La conversazione tra Raimondi e i suoi allievi si apre su questo: sembra che il passaggio da una lettura a un’altra abbia una stretta logica, ma presto «si scopre che non c’era un vero filo e che i testi si sono sommati fra loro in modo casuale». Un punto su cui Camminare nel tempo, in maniera più o meno esplicita, ritorna spesso, tanto che ne è uno dei tratti portanti, inverato attraverso innumerevoli esempi. Dall’umanista Codro a Renato Serra non più mero lettore di provincia ma europeo, da Tasso a Manzoni a cento altri, Raimondi ha indagato, come esemplarmente ricorda la postfazione, «il gorgo dell’informe, la lacerazione incomposta del tempo che consuma e che distrugge»; dunque «protagonista di queste pagine è il Tempo, con tutto ciò che esso comporta di imperfetto, dissonante, enigmatico»: una guerra contro il tempo, come per l’Anonimo manzoniano e per Manzoni stesso. E, nella guerra, anche si rammentano «le osservazioni di Raimondi sulla “letizia” che prorompe da ogni metafora felice, nel produttore come nel destinatario, suscitando un’esplosione festosa di luce e di forza».

Così è, se nel catalogo delle opere di Raimondi «metafora» è parola ricorrente, vero e proprio paradigma conoscitivo e motivo conduttore: da Metafora e storia: studi su Dante e Petrarca, alle pagine su Tesauro, dove la metafora è elemento ovviamente costitutivo; ai corsi degli anni ottanta dedicati a Metafora e sogno o a Il mondo della metafora.

Per il sempre centrale Manzoni, occorre almeno accennare al corto-circuito con Céline. Giuseppe Guglielmi confessò una volta al Professore quanto fosse proficuo il commento ai Promessi sposi nel tradurre lo scrittore francese. Fu così che Raimondi si trovò «collaboratore segreto» per la versione della trilogia germanica e di Casse-pipe e poi co-traduttore di un’ancora inedita Morte a credito. L’esperienza della traduzione è un confronto acceso tra le due lingue, fisicamente impegnate allo stremo. Impossibile, qui, rendere conto delle conseguenze nella lettura di Céline e di Manzoni che Raimondi sa trarre da tale esperienza, a partire dall’affermazione che «in Céline i personaggi non sono tanto caratteri quanto maschere acustiche, attori insieme grotteschi e sinistri di una commedia da fine del mondo».

La scuola, per la quale Raimondi non fu solo prima discente e poi docente, ma anche organizzatore, fin dai tempi della giovinezza, e ben prima che il suo ruolo e la sua persona diventassero istituzionali è, come giusto, un altro fuoco della conversazione; e, proprio fisicamente, la scuola intesa come luogo di lezione. La lezione per Raimondi ha a che fare con la pratica dell’attore: una questione di sapere sì, ma poi una questione di prossemica, di dizione, di gesto, di postura. Leggendo le pagine dedicate alla ricognizione, al ricordo e perfino alla teoria della lezione, accuratamente condotta perché nell’esibita finzione della recita prendessero corpo, per incantamento, le verità della parola, viene in mente per contrasto Natalino Sapegno, il maestro immobile che, dalla cattedra, hanno raccontato suoi allievi, fissava per tutta la lezione un punto vuoto dell’aula, con dizione senza sussulti e apparentemente di nulla traditrice o spia. In quest’arco di possibilità, in questo divaricarsi si racchiude, ancora una volta, la vicenda di un’università che seppe emancipare classi sociali e formare classi dirigenti.

Per Raimondi, si può anche dire, lettura e lezione con tratti attoriali furono qualche volta ausilio a rimediare lo spaesamento nel mondo. Venuto ai libri da una classe sociale di dignitosa e laboriosa origine popolare, Raimondi porta con sé la patria bolognese come bussola, perfino nelle connotazioni paesistiche e perfino a poche centinaia di chilometri, di là dall’Appennino; giovane, a Firenze, gli si fa strada interiormente una sensazione, verrebbe da dire serriana, che così descrive ai suoi interlocutori: «quest’aria che aveva i colori della pietra e dell’azzurro, con il vento che cominciava a spirare verso sera, provocava in me una sorta di tensione cromatica interna, come se non riuscissi a compenetrarmi sino in fondo in questa realtà senza il rosso delle case e la luce colorata del tramonto che, per me, erano invece quasi l’immagine della vita di Bologna. Con questa sorta di luce di pietra, che da gialla diventava bianca, la dimensione fiorentina in cui mi trovavo a vivere contrastava intimamente con la bolognesità, ove valeva soprattutto il colore del rosso nell’aria quieta della sera, con una suggestione di paesaggi carracceschi, in contrapposto ad altri della nostra memoria figurativa». E altrove: «La Bologna che mi portavo dentro era una Bologna umana, cordiale, come lo era mia madre, ma allo stesso tempo consapevole delle asprezze del vivere, delle difficoltà, delle intese talvolta impossibili, delle crisi, dei vuoti». Che ciò sia stato il diapason di una vita lo mostrano le pagine sui viaggi: da lontano, il Professore-tutto-libri, infine poco attore, mostra intera la linea degli affetti.