È cominciato il conto alla rovescia in vista delle cruciali elezioni catalane del 27 settembre, e la tensione fra Madrid e Barcellona aumenta sempre di più.

L’ultima novità che rende ancora più incandescente il clima politico iberico riguarda la Corte costituzionale, organo-chiave per il delicato equilibrio istituzionale del Paese.

Il Partido popular (Pp) del premier Mariano Rajoy vuole modificare le norme che ne regolano il funzionamento: in sintesi, vuole affidare alla Corte il potere di sanzionare chi non rispetti le sue sentenze.

Con punizioni anche molto pesanti, che vanno dalle multe (salate) fino alla sospensione dalle funzioni per i rappresentanti istituzionali e i funzionari «disobbedienti».

Il senso politico della proposta, inquadrata nello scontro in atto sull’indipendenza della Catalogna, è facilmente comprensibile: un avvertimento al presidente dell’esecutivo di Barcellona Artur Mas, uomo forte della lista secessionista «trasversale» Junts pel Sí («Uniti per il sì»), ma anche un messaggio a tutti i dipendenti dell’amministrazione della Generalitat catalana. Il Pp non fa nulla per nasconderlo: nella conferenza stampa di presentazione del disegno di legge, depositato martedì e al voto entro fine mese grazie a una corsia preferenziale, il numero uno dei populares catalani, Xavier Albiol, lo ha detto chiaramente: «Grazie alla nuova legge nessuno potrà dichiarare l’indipendenza della Catalogna».

Durissime le critiche di tutti i partiti di opposizione, uniti malgrado le differenti idee sull’indipendentismo, e anche del principale quotidiano spagnolo, El País, nonostante sia nettamente schierato contro la secessione: «La proposta del Pp danneggia la qualità della democrazia», attaccava l’editoriale di ieri.

«Una riforma inutile e inopportuna» per Pascual Sala, autorevole ex presidente della Corte. Inutile, perché «tutte le sentenze della Corte sono sempre state applicate, ed esistono già tutti gli strumenti giuridici ordinari per intervenire negli eventuali casi di “disobbedienza”». E inopportuna, perché «trasformerebbe la Corte in un esecutore della volontà del governo». Il disegno di legge, infatti, prevede che «le parti possano promuovere l’incidente di esecuzione per proporre alla Corte le misure necessarie al compimento delle sue sentenze».

Traduzione: il governo, che è una «parte» nei processi davanti alla Corte, potrebbe chiedere alla Corte stessa di sospendere Mas («le misure necessarie») se questi si rifiutasse di applicare una sua decisione. Ma cosa significa «non applicare» una sentenza della Corte costituzionale in una vicenda politicamente e giuridicamente complicata come la richiesta di «autodeterminazione» che viene da ampi settori della società catalana? Questo è il punto delicato. La riforma del Pp apre alla possibilità che una valutazione politica (della maggioranza di governo) circa «il mancato compimento di una sentenza» si trasformi in una decisione giudiziaria (della Corte costituzionale) con pesantissimi effetti politici. Si dirà: ma alla fine decidono pur sempre i magistrati della Corte.

Peccato che l’attuale maggioranza nel seno del più delicato organo di garanzia del Paese sia di orientamento conservatore, anzi: sia praticamente un’emanazione del partito di Rajoy. In Spagna, purtroppo, il sistema di nomina dei giudici costituzionali permette alla forza di maggioranza di impossessarsi della Corte, mettendo gente fidata: cosa che il Pp ha fatto senza alcuno scrupolo.

Le forze di opposizione si preparano alla battaglia, cominciando dal contrasto alla procedura d’urgenza che il presidente del parlamento (ovviamente del Pp) ha concesso alla riforma. Le intenzioni dei conservatori scandalizzano il leader socialista Pedro Sánchez, che accusa Rajoy di «strumentalizzare le istituzioni a fini elettorali».

Difficile dargli torto: il Pp vuole drammatizzare lo scontro per ergersi a difensore unico dell’«unità della nazione» e racimolare voti. Contro la riforma anche Ciudadanos, un partito che più anti-indipendenza non ce n’è: «Non si fanno leggi ad personam». E per il leader di Podemos Pablo Iglesias, «le minacce non aiutano i cittadini a capire».