Christoph Ransmayr, nato nel 1954, cresce in Alta Austria tra paesaggi agricoli e montagne, tra idillio naturale e percezione dell’orrore umano (nei pressi, la memoria un campo di concentramento). Studia etnologia e filosofia a Vienna, vive a lungo in Irlanda, e viaggia quasi ovunque nel mondo. Il suo primo romanzo, Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre (1984), gli vale l’attenzione di Enzensberger, che lo chiama a collaborare all’antologia poetica Das Wasserzeichen der Poesie (La filigrana della poesia): una specie di summa della poesia del mondo. Tra gli antichi tradotti da Ransmayr c’è Ovidio. L’esperienza delle versioni ovidiane gli ispira il romanzo che lo rende famoso, Die letzte Welt, 1988 (Il mondo estremo, Feltrinelli 2003). Ultima tellus, orbis ultimus (così Ovidio nei Tristia): il mondo ai margini dell’ecumene; ma in tedesco, letzte è anche ultimo in senso temporale, prima della fine. La storia si svolge su diversi piani temporali e narra il viaggio di Cotta alla ricerca dell’amico poeta esiliato da Augusto sul Mar Nero, nella città di Tomi. Elementi di realtà, l’esilio di Ovidio, la sua amicizia con Cotta Messalino, si mescolano con la finzione della quête amicale, dell’ipotesi di un libro delle Metamorfosi incompiuto, di un manoscritto bruciato da ricomporre attraverso iscrizioni incise su rocce. Il discorso è sulla poesia, su una politica che assume i tratti di una società totalitaria (in una convergenza temporale tra impero romano e Terzo Reich), e sulle presenze, nei nomi propri, di tutto il mondo di dèi e personaggi delle Metamorfosi degradato a comunità di uomini stremati. Cotta non troverà Ovidio, qualcuno dirà che è sparito nella montagna, e nella montagna sparirà anche lui nel finale. Verschwinden: lo scomparire, in tedesco è anche la fugacità. Il lettore viene contagiato da una nostalgia di mare e di altezze montane, ma senza sentimento romantico; è afferrato da un impulso unheimlich, perturbante, nella consapevolezza dei tempi che quei luoghi hanno attraversato, lasciando tracce.
Distopia, memoria storica individuale, ucronia, memoria e fugacità, rinascita e apocalisse, sono caratteristiche costanti della scrittura di Ransmayr. Le ritroviamo nel romanzo Morbus Kitahara (1997), situato in un territorio montagnoso la cui popolazione, colpevole di terribili orrori durante una guerra, viene costretta dalle forze vincitrici alleate a un regresso dalla tecnologia avanzata alla vita primitiva. Vi confluiscono le storie e i destini di molti transfughi da guerre e orrori; è qualcosa tra la Waste Land e Mauthausen, dove tuttavia nulla è determinabile e conoscibile con le categorie della realtà.
Per quanto diversi, i romanzi di Ransmayr inseguono sempre una qualche non-località. Basti pensare all’incipit del romanzo in versi La montagna volante, del 2006 (Feltrinelli ’08): «Sono morto / a 6840 metri sopra il livello del mare / il quattro maggio dell’anno del Cavallo. // Il luogo della mia morte / si trovava ai piedi di una guglia rocciosa corazzata di ghiaccio, / nel cui lato riparato dal vento avevo superato la notte. // … Da sud-est, attraverso gli abissi senza fondo ai miei piedi, / sfilavano ammassi di nubi». Il narratore, da morto, o forse da risorto, racconta la storia di due fratelli, morti insieme in una scalata in Tibet. Rivisita la storia terribile della morte in quota, tra i ghiacci, del fratello di Reinhold Messner. Ma anche qui non si tratta di realtà, ma di occasioni suggerite dalla cartografia del mondo e dell’uomo che nel mondo vive, per aprire porte inattese.
Il medesimo impianto geopoetico è riconoscibile nelle settanta microstorie che segnano l’Atlante di un uomo irrequieto (2012), ora in italiano nella bella traduzione di Claudio Groff (Feltrinelli «Narratori», pp. 361, euro 20,00). Una strana coincidenza vede nello stesso anno l’uscita di un film dei fratelli Wachowsky, intitolata Cloud Atlas. Come nel film, qui le storie aprono accessi a piani cronologici multipli, e i luoghi, pur mantenendo una referenza reale, mettono in crisi la ragione cartografica. Se disponessimo sulla carta del mondo i luoghi evocati da Ransmayr non riusciremmo a percorrere traiettorie lineari. Cile, Cina, Brasile, Stati Uniti, Marocco, Spagna, Islanda, Grecia, Messico, Laos, Austria, Nuova Zelanda, Nepal, Tibet, India, Isole sperdute del Pacifico, dell’Artico, dell’Oceano Indiano, e poi Hong Kong, Giava, Indonesia, Sri Lanka e ancora più lontano. Spazi e tempi sono richiamati dalla memoria visiva, acustica e poetica dell’io che per settanta volte dice: Ich sah (ho visto), facendosi testimone dell’autenticità di un vissuto, nello stesso tempo sottraendolo alle leggi del realismo. La maggior parte delle storie richiama l’esattezza: latitudine-longitudine, toponimi precisi, descrizioni minuziose della natura e del paesaggio, terminologia specifica negli ambiti della botanica, dell’ornitologia, della zoologia in generale. Registrazione delle abitudini alimentari, del modo di vestire, di pensare, di credere delle popolazioni sconosciute, come di quelle familiari. La descrizione antropologica si combina con l’occhio del naturalista e del reporter, per far emergere la visione del poeta in cerca di «mondi estremi», che sia l’Isola di Pasqua o la Muraglia cinese considerata dal punto di vista degli uccelli. Ma in un bar sperduto in California, l’estremo non è tanto la cometa Hale Bopp sfrecciante nella notte e da tutti ammirata, bensì il cameriere chino su bicchieri rotti, e gli avventori che distolgono la vista dal sublime celeste e lo aiutano a raccoglierli, quasi fossero stelle cadute. O il bivacco con fuoco acceso, in un ospedale psichiatrico a Vienna, tutto mentale, creato da una donna capace di vedere il suo «luogo selvaggio». Luoghi dimenticati, eppure toccati dalla violenza, dalla guerra, dai rifiuti della civiltà, nelle foreste lungo il Mekong, in America centrale, nei deserti del Maghreb, in Laos. In ciascuno il viaggiatore connette i tempi, legge nelle storie narrate dalle sue ‘guide’ locali le vie segrete per recuperare ‘il paradiso terrestre’. Ma legge anche storie latenti, che talvolta appartengono a persone estranee, altre volte al viaggiatore, e riemergono nella memoria.
Certi luoghi funzionano come figure del narrare. Qui uno tra molti. Siamo in Cambogia: «È un incrocio solcato da gorghi e mulinelli, nel quale il Tonlé Sap, l’unico fiume al mondo che inverte il corso al ritmo delle stagioni, si perde quasi silenziosamente». Il fiume, come la narrazione, ciclicamente cambia corso, da vicino a lontano, da passato a presente a futuro. E osservare la giungla può far emergere la memoria sanguinaria di Pol Pot. Ma altrove, al cimitero ebraico di Praga, desolato durante gli anni del regime parasovietico, c’è un certo Pavlik, nemmeno ebreo, a custodire le tombe, e mettere continuamente nuovi sassi su ciascuna, per salvarla dall’oblio, in modo che «un essere umano dopo l’altro» possa essere, «almeno per lui, per così dire, risorto». Questo, per Ransmayr, è il «lavoro degli angeli» (e degli scrittori?). E salvezza c’è nel momento estremo, persino per un toro, che continua a sfidare il suo torero spagnolo così coraggiosamente che il pubblico chiede di graziarlo. O ancora: nell’arrivo in una grotta montana, a migliaia di metri d’altezza, dopo un’ascesa quasi mortale; i monaci biascicano mantra, il fuoco pian piano si spegne, e il viaggiatore si sente al sicuro, salvato da un ricordo d’infanzia fattosi presente a migliaia di chilometri, a decine d’anni di distanza.
L’impianto di questa mappa, che unisce la percezione del singolo con i luoghi e le storie del mondo, fissa la sua rete attorno a nodi memoriali tenuti insieme da parole e immagini ricorrenti: l’oscurità, la tempesta, la salvezza, la folla, il paesaggio selvaggio, un vento caldo, il verde. A leggere queste pagine, in cui ogni racconto invita a un viaggio al termine di noi stessi e della storia del mondo, cosmo incluso, potremmo anche perdere l’equilibrio, cadere dall’altra parte dello specchio. L’io che «ha visto» scompare nel quadro e ci lascia soli in quei paesaggi. Con lo squalo tigre rovesciato da un trasporto nel deserto, con la bambina impaurita nella nebbia, pietrificata da un latrato di cane, tra pire funebri nell’umidità dei tropici, serpenti e macachi, pappagalli e bradipi, con un insegnante che muore alla fermata di un autobus. Non un libro di viaggio, ma un atlante di spazi e tempi che ci invita a sovrascrivere i nostri, e cambia, fugace e leggero ma profondo, di lettore in lettore.