L’operazione Ira dell’Eufrate su Raqqa registra le prime contraddizioni. Come a Mosul, anche nel nord della Siria settarismi e interessi particolari dettano l’avanzata. Ieri Liwa Thuwar Raqqa (piccolo gruppo arabo affiliato all’Esercito Libero Siriano, ma accusato di alleanza con al-Nusra nel 2013), oggi vicino alle Forze Democratiche Siriane (Sdf), avrebbe lasciato la controffensiva guidata dalle Ypg kurde. A monte, dice il leader dell’ufficio politico Hadi, il mancato accordo sull’ingresso nella città una volta liberata dall’Isis.

Nessun commento dalle Sdf, ma attivisti parlano di una spaccatura interna alla milizia araba, tra pro e anti-Ypg, tra chi le sfrutta per portare avanti la lotta al presidente Assad e chi per entrare più facilmente a Raqqa. Liwa Thuwar Raqqa, dal curriculum non certo limpido, imputa agli Stati Uniti il cambio di strategia militare.

Eppure sono stati proprio gli Usa, pochi giorni fa, a confortare la Turchia con cui il gruppo mantiene legami: saranno arabi sunniti (quindi le opposizioni) i primi ad entrare a Raqqa, la cui gestione sarebbe poi finita in mano a Washington e Ankara. Riemerge così il solito problema, che ad Aleppo ha la sua massima espressione: la legittimità e la natura dei gruppi presenti sul campo di battaglia, portatori di interessi che poco hanno a che fare con la lotta all’estremismo islamico.

Così a Raqqa emergono anche le tensioni tra potenze globali e regionali: la Turchia insiste per escludere i kurdi, gli Usa li vogliono sfruttare al massimo, Mosca e Damasco fingono disinteresse ma non nascondono il fastidio per i punti segnati delle Ypg. Probabile che il cambio di presidente alla Casa Bianca rafforzerà contemporaneamente sia le istanze turche che russe, a scapito di Rojava: Trump, sebbene non sia chiara ancora la strategia che vorrà applicare in Medio Oriente, non nasconde l’apprezzamento per Erdogan e Putin, un possibile asse strapieno di contraddizioni, dal ruolo dell’Iran a quello dei “ribelli”, dal futuro di Assad alle distanze tra Mosca e Ankara sulla Siria.

Ma le tensioni esplodono anche nel vicino Iraq, ancora ostaggio degli spettri del passato. Stavolta nel mirino delle organizzazioni internazionali c’è la polizia, quando tutti avevano gli occhi puntati sulle milizie sciite perché non commettessero i crimini di Tikrit e Ramadi.

A denunciare i casi di violenze sono stati Amnesty International e Human Rights Watch, secondo cui funzionari della polizia federale avrebbero ucciso almeno sei persone nelle aree di al-Shura e al-Qayyarah perché sospettate di legami con l’Isis. «Uomini che indossavano le uniformi della polizia federale hanno compiuto uccisioni illegali, arrestando e uccidendo a sangue freddo residenti dei villaggi a sud di Mosul», dice Lynn Maalouf, vice direttrice dell’Ufficio regionale di Amnesty a Beirut. Nel mirino ci sono anche i peshmerga di Erbil, accusati di almeno 37 arresti arbitrati nelle zone sunnite dove operano.

La polizia rigetta le accuse, ma i dubbi restano. Il governo centrale non ha il controllo totale degli uomini sul campo, molti dei quali sciiti desiderosi di vendetta verso comunità che associano in automatico allo Stato Islamico. Se è vero che in alcuni casi residenti sunniti hanno ben accolto l’Isis (come ampie porzioni dell’ex partito Baath di Saddam) vedendolo come liberatore dall’egemonia sciita, gli anni di occupazione hanno ampliato a macchia d’olio il dissenso verso il “califfo”.