Non hanno resistito, si sono aggiunte anche loro, le donne per il sì. Mancavano proprio a quella lunga fila di chi ha sentito la necessità di schierarsi, di far sapere che c’è. Come gli indimenticabili sessantotto sì, quelli che si appropriano di un passato collettivo e vogliono decidere dell’oggi perché allora furono in un movimento che poi si è diviso in mille rivoli.
Speravo che l’intelligenza femminile se ne tenesse fuori. Non dall’appassionamento, anzi. Come tantissime altre sono del tutto coinvolta, sostengo che il no mi riguarda, e non nego a nessuna il piacere dell’impegno e della battaglia politica. Ma non pretendo di parlare a nome delle donne. Del resto, chi potrebbe farlo?

Se c’è una cosa che insegnano le elezioni Usa e in particolare la vicenda di Hillary Clinton, è che parlare per conto delle donne non riesce facile. Anche quando sembra di avere tutte le carte buone in mano.

In ogni caso sarebbe stato meglio evitare scivoloni. Come far sapere che si è scritto l’appello dopo avere incontrato la ministra Maria Elena Boschi. Cosa significa, che abbiamo tra le mani un documento di governo? Che c’è l’imprimatur della ministra che ha firmato la riforma ma che ha anche la delega alle pari opportunità?
È forse per questo che l’appello si aggiunge al lungo canto di lodi per la Renzi-Boschi, i cui effetti taumaturgici sembrano non avere limiti?

Questo appello, oltre all’aumento del Pil come al magico incremento dell’occupazione, ora vorrebbe ascrivere ai meriti della cosiddetta riforma la possibilità di far funzionare la legge 194. Peccato che la 194 sia una legge dello Stato, e che solo allo Stato spetti di farla funzionare. Cioè tocca al governo trovare le forme per cui il diritto all’interruzione di gravidanza sia garantito in egual modo in tutte le parti del Paese, a prescindere dall’esercizio dell’obiezione di coscienza da parte dei medici. Che peraltro è una norma nazionale, non locale. Come il blocco delle assunzioni. Azione che finora nessun governo, compreso quello in carica, si è ben guardato dal fare. E nulla fa pensare a cambiamenti sostanziali, non si vedono impegni reali, operativi in questa direzione. E in ogni caso, se c’è una cosa che la Renzi-Boschi lascia in piedi, è esattamente il capitolo regioni e sanità. La sanità rimane in mano alle regioni.

Lo stesso argomento vale per lo scarso numero di asili nido. Da cosa dipende il continuo taglio di posti – fatti dai comuni – se non dal continuo taglio di risorse da parte del governo verso gli enti locali e la spinta alla privatizzazione? Quale è il sindaco – o la sindaca – che non sarebbe felice di poter soddisfare una richiesta sempre più forte e pressante, delle cittadine e dei cittadini? In quale punto la Renzi Boschi inverte questa drammatica scelta politica?

E neppure è la prima volta si introduce la parità in Costituzione, già prevista dall. art. 51, e ancora di più dall’art. 117, 7° comma Cost., che per gli enti territoriali, stabilisce il principio della “parità” di accesso. Non c’è neppure uno sforzo, come auspicato da tempo da tante femministe, sul linguaggio, che rimane tutto maschile.

L’accenno che più mi fa pensare è però il richiamo al piano nazionale antiviolenza.
Da poco la ministra Boschi ha rifinanziato i centri antiviolenza rimasti a secco, un atto dovuto. Il 26 novembre c’è la manifestazione «Non Una di meno», contro la violenza maschile, indetta dall’Udi, la rete Dire dei centri antiviolenza, e Io decido, la sigla che riunisce i collettivi femministi romani. C’è un patto, nel corteo non ci saranno nè il no nè il sì. Non sarà che l’appello, con la benedizione della ministra, è un modo per prenderne la testa?