I sostenitori del «no» al referendum abrogativo sulle estrazioni di idrocarburi in mare utilizzano due argomenti principali: il fabbisogno energetico nazionale e i posti di lavoro. Entrambi gli argomenti, però, costituiscono un falso problema. Le multinazionali che chiedono un permesso per cercare o una concessione per estrarre idrocarburi non lo fanno per corrispondere alle esigenze del fabbisogno energetico nazionale né per creare posti di lavoro. Lo fanno solo per perseguire i propri interessi economici; e questo lo capisce anche un bambino.

Non c’è nessun collegamento diretto tra le attività estrattive e il fabbisogno energetico nazionale. Dopo la scoperta del giacimento, le risorse presenti nel sottosuolo appartengono allo Stato, e cioè a tutti noi. A seguito del rilascio della concessione, però, quello che viene estratto diviene di “proprietà” di chi lo estrae. La società petrolifera, in questo caso, è tenuta a versare alle casse dello Stato solo il 10% del valore degli idrocarburi estratti se l’attività riguarda la terraferma e solo il 7% del petrolio e il 10% del gas estratti se l’attività riguarda il mare. Dunque: il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere dalla società petrolifera portato via e venduto altrove oppure può essere rivenduto direttamente allo Stato italiano.

Veniamo alla questione “occupazione”. Oggi, la realizzazione di progetti petroliferi non crea di per sé posti di lavoro significativi. Basti pensare al progetto «Ombrina mare», il cui procedimento per il rilascio della concessione è stato chiuso solo di recente (ma la norma sulle «durata di vita utile del giacimento», sottoposta ora a referendum, “congela” di fatto il relativo permesso di ricerca). Qualora fosse stato realizzato, il progetto avrebbe dato lavoro solo a ventiquattro persone. Certo, ci sarebbe stato comunque l’indotto da considerare. Ma quel progetto – per le sue caratteristiche proprie (una “grande opera” collocata a soli 6 km dalla costa) – avrebbe potuto compromettere ben altre attività economiche: per esempio il turismo della costa teatina, il quale – diversamente da quello romagnolo (romagnolo, non ravennate, si badi) – non è un turismo di massa e risulta attrattivo per ragioni che non possono prescindere dalle tipicità del territorio: i trabocchi in mare, l’agriturismo, i borghi storici, ecc.

Ora, quello che si sta sostenendo – anche da parte del Presidente del Consiglio Renzi – è che se il referendum del 17 aprile dovesse andare a buon fine si metterebbe in ginocchio l’occupazione dell’intero comparto degli idrocarburi. L’affermazione non è corretta. Il referendum spiegherebbe i propri effetti immediati non già sulle attività di estrazione in corso, ma sulla durata “naturale” delle concessioni attualmente vigenti. Non c’è nulla di teorico in questo discorso ed è sufficiente andare a verificare quale sia la data di scadenza delle concessioni. Se ci si attiene ai dati forniti dal ministero dello Sviluppo economico, in mare sarebbero presenti ben 135 piattaforme (tra produttive e non produttive), corrispondenti a venticinque concessioni ricadenti entro le dodici miglia marine (si tratta, in verità, di dati incompleti, in quanto, solo per fare un esempio, nel Canale di Sicilia non risulta attiva – come vorrebbe, invece, il Ministero – solo la concessione Vega A; in ogni caso, i dati diffusi non tengono conto che la norma sulla durata a tempo indeterminato dei titoli minerari incide anche sui permessi di ricerca e non solo sulle concessioni).

Ebbene, soltanto cinque concessioni scadranno tra 5 anni. Tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. E questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro: almeno non per effetto del referendum. Anzi, è semmai vero il contrario: se non si vincerà questo referendum, c’è il rischio che in prospettiva si perdano posti di lavoro senza che si riesca a far fronte tempestivamente al problema. Mi spiego.

Il comparto degli idrocarburi è già in crisi. Proprio qualche giorno fa Il Sole 24 Ore pubblicava un articolo dedicato alle attività di estrazione del gas nel ravennate. Il titolo del pezzo era il seguente: «A rischio il futuro dell’oil&gas. In sei mesi persi 900 posti di lavoro». Come si vede, la perdita dei posti di lavoro non può essere attribuita al referendum, non essendosi questo ancora tenuto. Il punto, allora, è il seguente: come ha pensato di porre rimedio il Governo alla crisi occupazionale che investe il settore? In nessun modo. La norma sulla durata a tempo indeterminato delle attività di estrazione degli idrocarburi non è stata varata per far fronte al problema occupazionale, ma solo per fare un favore alle multinazionali del petrolio. Mi pare evidente. Se il Governo avesse avuto a cuore i 900 lavoratori del ravennate, sarebbe intervenuto direttamente sulla questione con misure di altra natura e non già con una norma che, di per sé, non aggiunge e non toglie niente al problema. Quella norma, se non sarà abrogata rapidamente, e se non si indurrà il Governo a riflettere sin da ora intorno al reimpiego futuro dei lavoratori del comparto, finirà per scontentare tutti per il seguente motivo: essa è palesemente illegittima, in quanto una durata a tempo indeterminato delle concessioni viola le regole sulla libera concorrenza.

La norma, in altri termini, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 94/22/CE (recepita dall’Italia con d.lgs. 25 novembre 1996, n. 625), che, al fine di realizzare taluni obiettivi, tra i quali il rafforzamento della competitività economica e la garanzia dell’accesso non discriminatorio alle attività di prospezione, di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi e al loro esercizio, secondo modalità che favoriscono una maggiore concorrenza nel settore, prescrive che «la durata dell’autorizzazione non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali essa è stata concessa» e che solo in via eccezionale (e non in via generale e a tempo indeterminato!) il legislatore statale possa prevedere proroghe della durata dei titoli abilitativi, «se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione». D’altra parte, il caso della direttiva Bolkestein, e cioè della legittimità delle proroghe delle concessioni balneari (sulla quale la Corte di giustizia si pronuncerà a breve), dovrebbe insegnare qualcosa.

Questo vuol dire che, al netto di una procedura di infrazione che l’Unione europea potrebbe aprire nei confronti dell’Italia, qualora la norma sulla durata delle concessioni arrivasse sul tavolo della Corte costituzionale, questa ne dichiarerebbe quasi certamente l’illegittimità per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Se ciò accadesse, le concessioni tornerebbero di nuovo a scadere secondo la data originariamente prevista. Proprio come si propone ora con il referendum abrogativo. Ma con una differenza di non poco conto: che in questa evenienza, non conoscendosi ancora né l’ora né il giorno, sarebbe troppo tardi per intervenire e salvare quei lavoratori.

*Costituzionalista – autore dei quesiti Referendum