Alfano, ministro dell’interno, ha acceso le polveri sul possibile rinvio del voto referendario per il terremoto, e Renzi ha subito smentito. Ovvio. Un rinvio così motivato richiederebbe la modifica con decreto legge della tempistica imposta dalla legge 352/1970. Fatalmente, sarebbe letto come la mossa disperata di chi teme di perdere. Per di più, strumentalizzando un disastro che ha colpito la vita di tantissimi cittadini. Renzi sarà pure un giovanotto egocentrico e arrogante, ma di sicuro non è uno stupido. Ma altro sarebbe se il rinvio derivasse da una iniziativa giudiziaria, formalmente neutrale, attraverso la via un po’ tortuosa e incerta di un rinvio alla Corte costituzionale e di una sospensiva del decreto di indizione del referendum da parte di questa.

Questo consentirebbe a Renzi di cedere con buona grazia alla forza maggiore di una pronuncia del giudice, al tempo stesso ribadendo la sua ferma volontà di andare al voto al più presto. Senso dello Stato, nessuna colpa, nessuna responsabilità politica.

Lasciamo al gossip l’ipotesi – sussurrata a mezza bocca – che la strategia giudiziaria sia stata in realtà concordata tra i proponenti e Renzi, o sia comunque maturata negli ambienti anche autorevoli che sprofondano nel timore di una vittoria del No. Può essere o meno vero, ma non ci interessa. Perché comunque è una strategia che non serve al paese, e nemmeno allo stesso Renzi.

Rinviare il voto significa guadagnare tempo, ma per fare cosa? Intuitivamente, per dare respiro alla campagna del Sì, oggi in affanno nonostante il dominio mediatico di Palazzo Chigi e lo smaccato appoggio a Renzi della economia e della finanza italiana e straniera. Inoltre, per mettere mano alla riforma dell’Italicum, al fine di riguadagnare la dissidenza interna Pd e tutti quelli che sono pronti a prendere per buona qualunque riforma pur di risalire sul carro governativo.

Pare a noi che le riforme di cui si parla siano in realtà volte a recuperare la sostanza dell’originario patto del Nazareno, ripristinando le condizioni di un bipolarismo forzoso – pur quotidianamente smentito dai fatti e dai sondaggi – tra un centrosinistra di Renzi, e un centrodestra di Berlusconi o chi per lui. A tal fine si potrebbe aprire alle coalizioni o agli apparentamenti per l’attribuzione del premio di maggioranza. Altresì, si potrebbe cancellare il ballottaggio e tornare al turno unico, se si mantenesse la soglia di accesso al premio bassa: ad esempio, intorno al 35%.

Una riforma così costruita potrebbe puntare a ridurre le prospettive di successo M5S nelle elezioni anticipate probabili dopo una vittoria del Sì. Ma regalerebbe allo stesso M5S settimane o mesi di devastante campagna pubblicitaria sulla linea dell’inciucio e della vecchia politica che sopravvive con ogni mezzo nei volti apparentemente nuovi, per impedire il cambiamento virtuoso e imporre quello in danno della gente comune che lavora duramente per garantire dignità e sicurezza alla propria famiglia. Chi suggerisce strategie di rinvio dovrebbe riflettere. Non basta evitare la sconfitta oggi, se una vittoria male guadagnata domani costa di più.

Per chi si è impegnato per il No senza etichette di partito, il rinvio può essere un fastidio, ma non un impedimento. Una battaglia giusta prescinde dal tempo in cui si svolge, ancor più se riguarda la Costituzione. Il destino di Renzi non è mai stato all’ordine del giorno. Per di più, ha già fatto tutto lui. Se anche vincesse il Sì, il 4 dicembre o dopo, Renzi rimarrebbe pur sempre il premier che ha forzato troppo sulle riforme, essenzialmente in vista del proprio potere personale, spaccando il paese su un terreno delicatissimo come quello dell’identità storica e politica data dalla Costituzione, e per di più ritardando con ogni mezzo il voto quando ha temuto la sconfitta.
In politica conta l’autorità, ma ancor più l’autorevolezza. Con la vittoria del Sì Renzi potrebbe anche accrescere la prima, ma intanto ha già perso la seconda, e con essa una pretesa non arbitraria di governare il paese. Non c’è maggioranza truccata dal premio che possa restituirgliela, perché il suo posto nella storia l’ha già scelto lui stesso.

Il rinvio non serve, a niente e a nessuno. In politica non è come nelle favole, in cui alla fine vissero tutti felici e contenti.