In tempi migliori di questo, ci sarebbe stato un cenno di reazione più corale dinanzi a un presidente del Consiglio che fa le prove tecniche di democrazia plebiscitaria. E invece il silenzio è calato su parole e gesti che sanciscono una svolta profonda nella cultura politica. Non è stato colto il senso inquietante delle cose che Renzi fa e scrive: «Puntiamo al referendum finale. Per noi decidono i cittadini, con buona pace di chi ci accusa di atteggiamento autoritario. Sarà il popolo a decidere. Il popolo nessun altro». Nessuno ha provato a contrastare con dignità (e cioè con mezzi diversi dalla bandiera bianca della resa preventiva che la minoranza del Pd agita ogni volta che dà battaglia) lo scivolamento in terre (un tempo) sudamericane.

In questo suo Bignami del plebiscitarismo, Renzi infrange le condizioni basilari del referendum costituzionale entro democrazie consolidate. Nello spirito della carta, il referendum è l’estremo atto difensivo depositato nelle mani di una minoranza. Sconfitta in aula da una logica di innovazione partigiana, così poco accettata da non raggiungere la maggioranza qualificata auspicata, la componente soccombente, con una metaforica e pacifica forma di appello al cielo, chiama il popolo a ristabilire le condizioni della condivisione del patto costituzionale. Non vi è dubbio che, nella logica della costituzione repubblicana, il referendum sulle riforme rientra nel novero delle eccezioni costose. Esso evoca cioè la risposta ad una rottura grave che si è verificata nella rappresentanza con il varo di riforme scarsamente motivate e poco condivise.

Alla sospensione del necessario dialogo sulle questioni istituzionali non c’è alcun rimedio che il ricorso al popolo. Da strumento di contenimento della volontà di potenza della maggioranza, il referendum si converte però, nelle intenzioni di Renzi, in un plebiscito sul gradimento della sua leadership e quindi in un veicolo che faccia da traino alla sua campagna elettorale. Nella Francia dell’Ottocento con Luigi Bonaparte, quello del 18 brumaio, e poi nel dopoguerra con il generale De Gaulle, vigeva questa consuetudine del ricorso al referendum, visto come plebiscito o giudizio divino che rinsaldava il legame mistico tra un capo e la folla saltando ogni mediazione istituzionale.
Sulla scia degli illustri precedenti d’oltralpe, Renzi ribalta la giustificazione costituzionale del referendum. Fa approvare in sedute notturne, e anche con un’aula deserta, le sue riforme perché poi ci sarà il referendum a confermarle, penalizzando le sorde resistenze della palude alla velocità del capo. Così però il referendum si converte da mezzo garantistico per la minoranza in uno strumento del governo che se ne avvale per violare le prerogative del parlamento e stabilire una indebita connessione con il popolo, invocato a gradire con un si o un no.

Con appena il 25 per cento dei voti, che una legge elettorale incostituzionale ha però tramutato in maggioranza assoluta dei seggi, Renzi impone le sue riforme e mostra così il volto di una democrazia già sfigurata dall’abuso del potere. Emerge, in nuce, una palese crisi costituzionale, che non potrà non interrogare anche i custodi della carta. Comunque, c’è un precedente nella storia europea che occorre richiamare. Il generale de Gaulle faceva di testa sua le riforme istituzionali. E poi cercava la conferma per le sue scelte solitarie in un referendum nel quale spendeva tutto il carisma personale del leader. Anche nel 1969 egli attendeva una agevole ratifica popolare del suo sacro carisma che aveva varato grandi riforme delle istituzioni. E però il plebiscito non diede l’esito sperato. Il generale umiliato se ne tornò a casa abbandonando per sempre l’Eliseo. Anche allora in discussione era una riforma del senato. I gufi, nel loro piccolo, si organizzano.