«Se perdo il referendum costituzionale di ottobre mi dimetto un minuto dopo». Ma anche: «Non ho personalizzato io lo scontro, io chiedo di votare sul merito». Tornato in televisione, dalla quale mancava da domenica scorsa – allora era Che tempo che fa, e il doppio ruolo di presidente del Consiglio e segretario del Pd favorisce la sovraesposizione anche durante la par condicio pre elettorale – Matteo Renzi trova nello studio di Porta a Porta l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. Che aveva molto criticato sia il governo che la riforma costituzionale, prima di essere sostituito alla guida del primo giornale italiano.
«Lei ha personalizzato il referendum costituzionale, dice apres moi le diluge», attacca de Bortoli. «Apres moi le diluge non è una mia espressione», riesce a rispondere Renzi. Che poi spiega. «Figuriamoci, lei mi ha dato del caudillo, se adesso mi dà dell’imperatore francese è tanta roba». Scansa la critica, malgrado sia stato proprio lui ad aver detto che al referendum si può votare no «solo per odio nei miei confronti», e malgrado la ministra Boschi abbia più volte detto che «senza ipocrisia, è un voto sul governo». «Non sono stato io a personalizzare», dice Renzi, «chi vuole votare contro di me può votare contro di me alle politiche». Però aggiunge che «se perdo torno a fare il libero cittadino, mi dimetto il giorno dopo e certamente smetto con la politica. È finita l’epoca in cui rimangono sempre i soliti. I cittadini non sono abituati al fatto che se qualcuno perde va a casa perché in Italia non perde mai nessuno».

Alla domanda se questo significa che ci saranno elezioni anticipate, il presidente del Consiglio risponde che «deciderà il presidente della Repubblica». Un gesto di rispetto per il Quirinale che però viene immediatamente smentito quando si passa a un altro argomento: l’allargamento della maggioranza. Il presidente del Consiglio da Vespa riconosce chiaramente, come mai fin, qui che il gruppo dei deputati e soprattutto senatori fedeli a Denis Verdini fa ormai stabilmente parte della maggioranza (del resto, siedono ai vertici sulla riforma della giustizia al ministero e anzi sono i titolari della proposta che può sbloccare la riforma della prescrizione). «Oggi il fatto che il gruppo di Ala voti le riforme è un dato di fatto oggettivo che deriva dalla particolarità di questa legislatura», dice Renzi. Una modifica nella maggioranza dovrebbe comportare un passaggio formale, un passaggio al Quirinale, la richiesta di un nuovo voto di fiducia, al limite un governo Renzi II. Niente di tutto questo, risponde il Renzi I: «Salire al Quirinale? Al Quirinale ci andiamo sempre. Andare in parlamento e chiedere la fiducia? L’ho chiesta 55 volte».

«Stiamo nel merito della riforma Costituzionale», invita a un certo punto della trasmissione il presidente del Consiglio. Ma il merito per lui è questo: «C’è la possibilità di mandare a casa 315 stipendi di parlamentari». Del resto aveva annunciato che avrebbe usato argomenti demagogici: l’enfasi è sul risparmio (parecchio presunto), non sul funzionamento del nuovo senato o sul neo centralismo statale. È con questa strategia che a palazzo Chigi si stanno mettendo a punto i dettagli per l’avvio in grande stile della campagna per il Sì.
Sabato 21 maggio Renzi vuole che sia il «referendum day», una giornata per lanciare la raccolta di firma dal lato della maggioranza che vuole chiedere il referendum per votare sì. Lo squilibro nell’informazione è tale che neanche si prende in considerazione il fatto che i referendum sono già stati chiesti da chi ha più titolo: i cittadini (parlamentari ed elettori) che si oppongono alla riforma costituzionale. E le firme si stanno già raccogliendo, sui banchetti organizzati dal comitato del No, che sta provando anche a raccogliere quelle necessarie per due referendum abrogativi della legge elettorale.
L’ultima domanda a Renzi è sull’ipotesi di dividere in più quesiti il referendum costituzionale. Risponde di no, il che è naturale visto che cerca il plebisicito: «Non è come il Tetris che ognuno prende un pezzettino. Per “spacchettare” bisognava fare quattro voti diversi in aula». Già, ma chi ha presentato un disegno di legge costituzionale unico? Il governo.