La morte di Giulio Regeni cambierà per sempre il rapporto tra stranieri, italiani ed Egitto. Sebbene la Farnesina ancora non abbia vietato i viaggi nel paese delle Piramidi, i siti filo-governativi riferiscono di un calo del 90% dei connazionali che decidono di passare le loro vacanze al Cairo. E chi può biasimarli dopo le atroci torture che hanno causato la morte del dottorando friulano?

È abbastanza sconcertante che la Farnesina non sconsigli i viaggi in Egitto. Lo aveva fatto l’ex ministro degli Esteri, Emma Bonino, in occasione del colpo di stato militare del 2013. Dopo di che, le pressioni del governo egiziano perché il bando venisse rimosso hanno sortito i loro effetti.

Neppure la bomba sull’Airbus A321 che ha causato la morte di 224 persone è servita a far ripensare i rischi che gli italiani corrono recandosi nel terribile regime militare di al-Sisi.

I primi a rischiare per le rivolte in corso in Medio oriente tra il 2011 e il 2013 durante le manifestazioni di piazza, il golpe militare e le guerre in Libia e Siria sono stati i giornalisti. Tanti sono stati arrestati o minacciati, molti sono stati costretti a scappare. Questo è avvenuto soprattutto nei paesi dove le prime sparute manifestazioni hanno preso la forma di guerre civili. E quindi non sono mancate le immagini di giornalisti sgozzati, rapiti o uccisi.

Non siamo stati abituati ad associare queste immagini all’Egitto dove l’unico processo mediatico contro la stampa ha coinvolto i tre giornalisti di al-Jazeera che avevano raccontato il massacro di Rabaa al-Adaweya. In realtà dal 2013 in poi, sono decine i giornalisti egiziani e stranieri arrestati o obbligati a lasciare il paese per le loro idee.

Ormai da qualche tempo l’Egitto aveva perso l’attenzione mediatica che ebbe nel 2011 proprio per la dura repressione che ha azzerato le richieste dei movimenti di piazza.

In questa fase ad essere protagonista sul campo non è più la stampa ma sono gli studiosi e i ricercatori.

Questo accade perché di prassi la ricerca non ha obblighi legati all’attualità e può permettersi tempi lunghi per comprendere ed analizzare le dinamiche politiche che coinvolgono un paese.

Così è stato per Giulio Regeni che era arrivato, superato il duro scoglio dell’analisi teorica, al momento cruciale per ogni ricercatore del lavoro sul campo (fieldwork).

Ovviamente esistono tanti modi di fare ricerca. Molti studiosi fanno vita d’archivio e di analisi di fonti primarie e secondarie. Altri, come Giulio, scelgono la via della ricerca dal basso, analizzando le dinamiche sociali che informano i casi studio su cui decidono di concentrarsi. Il caso di Giulio era interessante perché coinvolge i sindacati indipendenti.

Si tratta di gruppi vibranti, sebbene marginalizzati dalla repressione, del frammentato panorama dei rimanenti delle rivolte del 2011.

Anche qui Giulio avrebbe potuto limitarsi a descrivere le dinamiche sindacali senza andare oltre, come spesso fa chi vuole evitare di esporsi a rischi specifici. Invece il ricercatore dell’Università di Cambridge, come confermato dalla sua supervisor, Maha Abdelrhaman, era stato spinto ad andare oltre.

Giulio stava svolgendo quindi una ricerca partecipativa. Ci sono tanti tipi di ricerca partecipativa: una di queste implica lo svolgimento di focus group in cui non ci si limita soltanto a fare delle interviste ma si analizzano le dinamiche di gruppo, le relazioni tra operatori sociali e membri del gruppo, l’interazione tra i partecipanti al focus e il ricercatore. Tutto questo serve a rispondere alle proprie domande di ricerca in modo esauriente considerando però il punto di vista dal basso di chi partecipa direttamente ad una organizzazione non governativa o, come in questo caso, a un sindacato.

Ovviamente questo in Egitto espone a rischi a vari livelli. Le persone coinvolte potrebbero sentirsi minacciate e rifiutarsi di rispondere oppure un focus group può essere confuso come un assembramento in un paese dove vige una delle più dure leggi anti-proteste della regione.

È evidente che il dipartimento avrebbe dovuto avere le idee chiare sul rischio dello svolgimento di una ricerca partecipativa nel contesto di repressione politica che attraversa l’Egitto.

La stampa italiana ha poi fatto circolare tante illazioni sui contatti che Giulio Regeni ha potuto avere con fondazioni o centri di ricerca in Gran Bretagna e negli Stati uniti. Queste consulenze sono molto comuni tra i ricercatori e non implicano molto di più della stesura di semplici report.

Come ha fatto giustamente la famiglia smentendo, questo tipo di notizie serve solo a montare la pista della spia proprio come vuole il governo egiziano.