Giulio Regeni è stato vittima di un regime di paura che ha impedito alla sua cerchia di amici e all’ambasciata italiana in Egitto di rendere pubblica la notizia della sua scomparsa la notte stessa del 25 gennaio scorso. Lo conferma una volta di più l’intervista apparsa su Repubblica del procuratore aggiunto di Giza, Hossam Nassar. Le sue parole collocano la morte del dottorando friulano il giorno prima il ritrovamento del cadavere, lo scorso 3 febbraio, quindi otto giorni dopo la sua scomparsa.

L’altro elemento che emerge con chiarezza dalle rivelazioni del magistrato egiziano, braccio destro del giudice, Ahmad Nagy, titolare dell’inchiesta, che aveva subito confermato i segni di tortura sul corpo del giovane, è che per le autorità inquirenti egiziane per arrivare alla verità nel caso Regeni sarebbe centrale indagare all’interno della cerchia di amici del ricercatore. Tra quelli magari più «di parte» e impegnati nello studio dei sindacati indipendenti egiziani e in particolare dei sindacati dei collettori di tasse: perché probabilmente qualsiasi straniero che abbia queste caratteristiche, potrebbe essere una potenziale minaccia per il regime militare. Come confermerebbe Jean Lachapelle in un articolo apparso ieri sul Washington Post. «È possibile che le attività di ricerca di Regeni siano state scambiate dal regime come un lavoro sul campo per preparare una nuova rivolta – si legge nell’articolo – Aveva costruito rapporti con attori locali, aveva partecipato ad incontri con attivisti del movimento operaio e parlava arabo perfettamente».

Le autorità egiziane hanno sempre accusato gli stranieri di essere la vera mente delle rivolte del 2011. Da quel momento è stato diffuso un tale sentimento di diffidenza dai media pubblici che ha portato molti egiziani a percepire tutti gli occidentali nel paese come delle spie. Questo atteggiamento ha raggiunto la più alta esasperazione nei momenti critici per il regime, come il golpe del 2013, e ritorna in occasione di ogni anniversario dalle rivolte del 25 gennaio 2011. Se gli scambi sono forti, consolidati e diffusi tra attivisti europei e movimenti della sinistra del Rojava (Pyd) in Siria, con la sinistra filo-kurda in Turchia (Hdp) e anche con il sindacalismo tunisino, ecco che meno strutturati sono i legami transnazionali degli attivisti europei con il movimento operaio, la sinistra e il sindacato egiziano.

È lì che il regime militare potrebbe avere deciso di colpire. Forse a partire da un arresto sommario, come quello di Giulio Regeni, finito con lunghi interrogatori di un giovane già preoccupato perché ben consapevole della delicatezza della sua attività di ricerca. E quindi la detenzione è finita con la tortura e morte mirata di un presunto attivista. La conferma potrebbe essere stata trovata nell’articolo pubblicato dal manifesto, ma solo dopo la sua morte. Ribadiamolo: della prova pubblica delle intenzioni che ispiravano Regeni in Egitto si è avuta notizia solo dopo la sua morte.

Inoltre, le ricostruzioni che vengono dalla procura di Giza avvicinano di nuovo Regeni alla fermata Mohammed Naguib, poco lontano da piazza Tahrir, dove il giovane aveva un appuntamento quella sera. Segnalando che «alle 19.38 del 25 gennaio Regeni era all’interno della stazione della metro di El Behoos (quella vicino casa, ndr) perché, come abbiamo stabilito in questi ultimi giorni con un accertamento tecnico, a quell’ora la sua utenza cellulare si connette ad internet mentre è all’interno della metro». Ricostruzioni che allontanano i depistaggi, mentre la repressione continua a colpire tutti gli egiziani. Organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno presentato le loro preoccupazioni alle Nazioni unite per «le violazioni dei diritti umani in Egitto dalla proibizione dei viaggi alle minacce di assalti sessuali».

Questi attivisti hanno citato in particolare gli abusi subiti da Aya Hegazy, Hesham Gaafar, Hossam Bahgat, Gamal Eid e Israa Abd el-Fattah e hanno chiesto il rilascio immediato dei prigionieri politici. Il ministro della Giustizia, Ahmed el-Zind, ha proposto invece alcuni emendamenti alla legge anti-terrorismo chiedendo di perseguire anche i familiari e i tutori dei giovani accusati di far parte di organizzazioni terroristiche.

Sorte anche peggiore è toccata a un noto difensore dei diritti umani, Negad el-Borai, accusato tra le altre cose, di gestire un’organizzazione senza licenza. Infine, il Tribunale di Abdin, nel centro del Cairo, ha rinnovato per 45 giorni la detenzione dell’attivista Taher Mokhtar, insieme a Hossam Ahmed e Ahmed Hossan. I tre, vicini anche all’attivista comunista in prigione, Mahiennour el-Masry, sono accusati di essere in possesso di documenti e di condurre campagne per «rovesciare il regime».