Chi ha conosciuto Lina Mangiacapre ne ricorda nitidamente la presenza straordinaria: un corpo esile e una potenza formidabile. Occhiali colorati e grandi che tuttavia non coprivano il volto solare, minuto e sorridente, un cilindro nero inconfondibile e stivali da cavallerizza, negli anni settanta la si incontrava spesso per le strade di Napoli, sua città natale, ma anche di Roma e Parigi. Femminista, pittrice, cineasta, poeta e molto altro, scompare nel 2002 all’età di 53 anni consegnando un portato biografico, politico e artistico di grandezza. Poi ancora scritture, dai romanzi alle composizioni filosofiche passando per il teatro, il cinema e il giornalismo.

Negli anni della contestazione studentesca Mangiacapre vive a Napoli e si iscrive al corso di laurea in filosofia coniugando da subito marxismo ed esistenzialismo. In questo modo attraversa il ‘68, scagliandosi contro assetti costituiti e rovesciando tradizionali modi di intendere lo stesso dipanarsi del pensiero logico. Infine andando a immergersi nella materialità della propria esistenza per rendersi crocevia nomadico e contaminato di ciò che lambisce e la circonda; prima di tutto il territorio napoletano in cui vive e di cui riconosce la radicalità nella sua azione politica. Da qui in poi il corpo, l’invenzione, la relazione con il vivente ma anche la sessualità e la pratica della propria libertà stanno al centro, in costante trasformazione.

Alla fine degli anni sessanta Lina Mangiacapre è poco più che ventenne e già dipinge – firmandosi Màlina con un chiaro riferimento al libro omonimo di Ingeborg Bachmann. Intende l’arte come grimaldello politico per scassinare l’ovvietà che la circonda e di cui condivide l’amarezza con altre donne. È nel 1970 che fonda il collettivo femminista le Nemesiache e cominciano insieme il lavoro nel centro storico, nei quartieri popolari che non hanno mai smesso di frequentare. Mangiacapre incontra operai, pescatori, artigiani dando un senso alla sua passione per la conoscenza, congiunge cioè il suo desiderio di cambiamento del mondo facendo di Napoli una leva e una trama fitta di traiettorie che arrivano ai Campi Flegrei, a Pozzuoli e a Cuma attraverso cui farà una rivisitazione dei miti classici – fino al rapinoso esito industriale di Bagnoli e lo sfascio ambientale che ne è derivato.

Inizia a farsi chiamare Nemesi, nome con cui, da lì a poco, alcune volte le capiterà di firmarsi. Scrive su diverse riviste e giornali, da Orsaminore a Effe, Fluttuaria, Femmes en mouvement, l’Unità, Paese sera e Quotidiano donna. Movimento delle donne, femminismo, teoria critica – che quindi è pratica – di una irriducibilità metamorfica senza possibilità di ritorno, la vita di Lina Mangiacapre è una deflagrazione che non si arresta. Nel 1973, insieme al gruppo delle Nemesiache, fa nascere l’omonima casa editrice che nel 1977 diviene anche Cooperativa Le tre ghinee – tuttora operante. Complessivamente pubblicano una quindicina di titoli, oltre ai cataloghi della Rassegna femminista – inaugurata ufficialmente nel 1976 – all’interno degli Incontri del cinema di Sorrento.

In quel momento Mangiacapre, oltre a continuare a occuparsi della sua pittura, ha già concluso e messo in scena qualche sceneggiatura teatrale; per esempio Cenerella (1973), una riscrittura della ben nota fiaba popolare che un anno dopo traspone per il cinema. Per il teatro scrive e mette in scena altre sette opere tra le quali figura l’attenzione verso il mito – basti ricordare Eleniade (1983) e Viaggio nel mito di Capri (1992) – ma anche nei confronti di altre scritture di ricerca. In particolare viene alla mente Antonin Artaud che ritorna nei toni, nelle scelte dissacranti e al limite dell’oracolare, non solo in Eliogabalo (1982).

Poliedrica anche come scrittrice, oltre a pubblicare nel 1988 il trimestrale curato insieme alle Nemesiache Mani/festa: il diverso della scrittura, Mangiacapre scrive Cinema al femminile, opera in due volumi (1, 1980; 2, 1994), e altri libri in cui la filosofia si svela nella necessità di congedarsi dalla vacuità del pensiero occidentale nella forma del concetto. Degli anni novanta sono infine Faust/Fausta (1990) e Donne e unicorni (1995).

Un ragionamento a parte meriterebbe la silloge Amazzoni e Minotauri, pubblicata nel 2008 con prefazione di Elio Pecora e postfazione di Adele Cambria, dove la scelta dell’incedere contratto inchioda definitivamente il conflitto fra eros e thanatos.

Questo e molto altro ha percorso Lina Mangiacapre nella sua vicenda terrestre. Tanta è stata la sua dirompenza che sembrava non appartenere «al mondo degli umani, ma a quello delle fate, degli elfi, degli gnomi, degli spiriti bizzarri e imprevedibili»; così la descrive Dacia Maraini nella prefazione a uno dei suoi libri più importanti: Pentesilea (1996). Sarà efficace figurarsela proprio nel modo di una regina delle Amazzoni postumana, capace tuttavia di farsi attraversare dalle passioni, compresa quella della vulnerabilità che nel tragitto materiale e simbolico di Mangiacapre è il rischio corrosivo di sentirsi, di potersi autorizzare alla vendetta là dove quest’ultima significhi il rifiuto della collera apparecchiata dal potere.

Interrogare le sue parole e le sue opere, espanderle come ulteriori possibilità rizomatiche, indica allora una genealogia che abita Napoli e la storia del Novecento italiano, percorso e modificato incontrovertibilmente dal femminismo e dai saperi delle donne.

In questo senso desta più di qualche interesse scoprire che proprio recentemente è stato lanciato un crowdfunding per produrre un documentario su Lina Mangiacapre, proposto dalla regista indipendente Nadia Pizzuti in collaborazione con il collettivo adateoriafemminista e l’associazione Le Tre Ghinee/Nemesiache, in particolare con Teresa, sorella di Lina e scultrice raffinata alla quale si deve gratitudine per la cura mostrata verso la sistemazione dell’archivio di carte e documenti in parte consultabili al sito http://www.linamangiacapre.it

 

Lina Mangiacapre. Intervista a Nadia Pizzuti

Si intitola Lina Mangiacapre, artista del femminismo ed è il progetto lanciato da Nadia Pizzuti, giornalista, scrittrice e soprattutto cineasta – dal 2011 a tempo pieno.

Il crowdfunding per sostenere l’iniziativa – rintracciabile all’indirizzo https://www.produzionidalbasso.com/project/lina-mangiacapre-artista-del-femminismo/ – ha già cominciato a dare i primi riscontri ed è ancora in corso.

Vale la pena soffermarsi su una scelta simile che risponde al preciso intento politico di tracciare il ritratto di una delle protagoniste più scomode, sfrontate e geniali del femminismo italiano.

Non resta che chiedere ulteriori dettagli a Nadia Pizzuti.

Quando hai incontrato il lavoro di Lina Mangiacapre?

Ho cominciato a interessarmi a Lina Mangiacapre e al collettivo delle Nemesiache nel 2012, mentre preparavo un documentario sulla filosofa Angela Putino. Lessi un’intervista in una raccolta curata da Conni Capobianco in cui Angela parlava del suo incontro con Lina a partire dal loro comune interesse per il mito e faceva riferimento al loro lavoro su Pentesilea e la figura dell’androgina/amazzone svolto alla fine degli anni 80. L’impegno comune, seppur problematico, di queste due grandi femministe napoletane mi è sembrato appassionante. Così ho deciso di inserire in Amica nostra Angela un’intervista alla sorella di Lina, Teresa, che, assieme ad altre Nemesiache, ha proseguito il percorso del gruppo dopo la sua morte.

Da dove nasce l’idea di un film su di lei e a chi è rivolto?

L’idea era già nell’aria, avevano cominciato a pensarci alcune giovani ricercatrici napoletane, una delle quali, Tristana Dini, mi ha lanciato la proposta. Di Lina mi piacevano la visione della creatività come forme di lotta politica, la libertà con cui costruiva la propria immagine, il suo look multiforme, androgino, dark, punk rock. E mi interessava l’approccio delle Nemesiache alla napoletanità, il loro radicamento nel territorio che però rifiutava il folclore e altre visioni riduttive di Napoli.

La mia chiave di lettura è stata la centralità del corpo come strumento performativo. Questo ha significato esplorare le metamorfosi di Lina (Nemesi/Màlina/strega/sirena/sibilla/Pentesilea/Eliogabalo/Faust-Fausta) e i collegamenti fra i suoi percorsi artistici e politici: identificazione con l’androgina, riappropriazione del territorio archeo-mitologico, denuncia dell’inquinamento ambientale, impegno per la ricostruzione di una Napoli “a misura di donna” dopo il terremoto, ricerca sul cinema come sintesi di tutte le arti. Volevo poi valorizzare il lato ironico e giocoso del suo lavoro e dare una dimensione collettiva al progetto.

L’idea di finanziarlo in parte con un crowdfunding nasce dall’esigenza di creare una comunità di interesse, un pubblico più vasto possibile. E’ un progetto rivolto anche alle nuove generazioni: mi sembra importante ravvivare e divulgare il ricordo di persone che hanno lasciato un segno nell’immaginario collettivo ed è importante fare in modo che le storie e l’impegno delle femministe italiane non vadano perdute.

A un certo punto del progetto fai riferimento al transfemminismo. Qual è stato secondo te il senso intercettato da Lina Mangiacapre?

Penso che questo concetto abbia a che fare con l’enfasi che Lina poneva sulle metamorfosi, sulla mutevolezza, a partire dalla sua ricerca sul mito. Infatti si firmava Nemesi, la dea delle giusta vendetta, e da lì nascono le Nemesiache, il collettivo da lei fondato. Inoltre Lina non si definiva con categorie di genere, diceva di essere un’androgina. Nel suo romanzo filosofico Faust-Fausta (1990) mette in relazione il transfemminismo con «la nascita di un essere in mutazione, con un’identità sessuata in continua metamorfosi», terreni poi esplorati in diversi modi dalla queer theory, dalle ricerche sulle identità sessuali fluide e dal pensiero di Beatriz Preciado.

Al «transfemminismo» si richiama anche un’azione di protesta firmata Transnemesiache: l’8 marzo 1982 Lina Mangiacapre e le sue compagne, con abiti maschili e baffi, fecero irruzione a Castel dell’Ovo a Napoli e interruppero un convegno sulle donne.

Su cosa hai preferito concentrarti e chi ti sta affiancando?

Avevo due opzioni: privilegiare testimonianze e racconti delle Nemesiache e di altre persone, cioè girare un documentario con un impianto classico, oppure realizzare un film prevalentemente di montaggio, una elaborazione creativa delle immagini e dei testi di Lina. Ho scelto la seconda, che mi è sembrata più originale e più consona alla chiave di lettura che avevo individuato. Così è maturata anche l’idea di inserire scene di animazione, suggerita da Tristana Dini.

Ad arricchire il progetto contribuisce l’apporto di Stefania Tarantino, che come Tristana era un’allieva di Angela Putino. Nella colonna sonora di Amica nostra Angela avevo inserito alcune canzoni di Stefania e anche in questo nuovo documentario ci saranno sue composizioni, oltre a quelle delle Nemesiache e delle Flying Lesbians, un gruppo rock tedesco degli anni 70. Vorrei avvalermi solo di professionalità femminili, quindi nella squadra ci sono anche Emanuela Pirelli alla fotografia, Lina Cascella come aiuto regista e Sara Pazienti, una raffinatissima montatrice che ha partecipato al documentario su Angela Putino. Collaborano inoltre l’associazione le Tre Ghinee/Nemesiache e la rivista online Adateoriafemminista.

Il film dovrebbe essere pronto entro l’estate.

Le Nemesiache, il territorio e il mito:

Le Nemesiache sono tra i primi collettivi femministi italiani – insieme alle esperienze di Rivolta Femminile e Demau. All’interno della scena femminista dei primi anni settanta, il posizionamento del collettivo napoletano appare da subito originale fin dal nome scelto. Nel loro primo manifesto politico diffuso nel 1970 precisano: «Nemesis: la femminilità originaria, l’indomita natura ribelle senza alcun limite è l’immagine che noi vogliamo riprendere di noi stesse e la possibilità che a livello storico oggi vogliamo assumere. Inventeremo e creeremo la nostra lotta come la nostra sessualità come la nostra cultura». La loro azione politica è sempre stata radicata al territorio di Napoli di cui hanno osservato (e osservano tuttora) il dritto e il rovescio. Non si tratta di una mera riappropriazione dello spazio urbano, bensì di un desiderio profondo di riprendersi ciò che è stato loro espropriato: le proprie origini. Lo spazio urbano viene abitato come scenario di lotte per affrontare «l’utopia dei bisogni e i bisogni dell’utopia». Dalla lotta per la casa, per la sopravvivenza, per la libertà sessuale fino a quella di uno spazio culturale. Il paradosso di sentirsi radicate così saldamente e muoversi in modo nomadico, spesso performativamente, fa del collettivo una soggettività eccentrica e ineludibile all’interno della storia del femminismo.

Per comprendere in che modo Lina Mangiacapre e le Nemesiache collocassero la lotta politica nella quotidianità del contesto sociale napoletano, va segnalata la sponda con il mito classico. Come fossero aspetti di una stessa tessitura, la misura politica del territorio di Napoli è simbolicamente la dismisura di uno spazio pensante e abitato più ampio: quello che dai Campi Flegrei passa per Cuma con tutta la connotazione storica e culturale che comporta. Uno spazio di nascita in cui toccare ciò che è stato rubato dalla violenza filosofica (e politica) del logos. Rivolgersi al mito è un modo per tornare a un luogo resistente la colonizzazione – in particolare da parte delle donne che non hanno mai ceduto, «un sistema cosmico precedente al patriarcato» per mettersi in ascolto della sua forza narrativa e verificarne la cifra incarnata e inaggirabile.

«Io ho inteso rimettere al mondo il mito con le Nemesiache»; Mangiacapre rispondeva così in una lunga intervista rilasciata nei primi anni novanta a Lucia Mastrodomenico. In questa direzione vanno lette le prime sperimentazioni teatrali e soprattutto quelle cinematografiche degli anni settanta che poi sono proseguite in composizioni più mature fino agli anni novanta. La tangenza con le Nemesiache anche qui è dirimente: accanto a Mangiacapre vi erano sempre loro, in ruoli attoriali (in particolare la sorella Teresa), di produzione o semplicemente di discussione dei testi per significare un posto essenziale all’esperienza.

Oltre a curare la Rassegna femminista all’interno degli Incontri Internazionali del cinema di Sorrento insieme a Lina Mangiacapre, ancora oggi si occupano del Premio cinematografico (fino al 2000 dedicato a Elvira Notari) a lei intitolato dopo la sua scomparsa.

Lina Mangiacapre: il cinema

«Il cinema è un insieme di immagini, non c’è astrattezza, ecco perché dalla scrittura sono passata al cinema, sempre in questa mia ricerca di capire da dove nasceva il concetto». Come si legge nella prima mozione redatta dalle Nemesiache e datata 29 settembre 1976, la rassegna cinematografica femminista creata all’interno degli Incontri internazionali del cinema di Sorrento intendeva affermare «la presenza dell’espressione della donna nel campo del cinema». È un tipo di cinema differente «che non pone dei contrasti e delle valutazioni diverse tra professionismo e non professionismo».

Anche qui il protagonismo di Lina Mangiacapre è cruciale, per la scrittura, l’organizzazione, la regia e l’idea di confrontarsi con altre e altri del panorama filmico e politico a lei contemporaneo. Da Margarethe von Trotta a Ulrike Ottinger, Gabriella Rosaleva, Lu Leone, Helma Sanders Brahams, Yvonne Scholten (solo per citarne alcune), le registe che hanno partecipato alle giornate sorrentine creano scambi e occasioni di commistione reciproca.

Nei confronti del cinema, così come per il teatro, Lina Mangiacapre avvertirà il costante desiderio di far emergere l’impegno politico e le relazioni tra donne. Non sorprenderanno dunque pellicole come Autocoscienza (1976) ma anche Le Sibille (1977) e Faust/Fausta (1991), tratto dal romanzo omonimo.

Gli esperimenti, la visionarietà, la battaglia personale e politica si muovono sempre sul crinale interno/esterno nella totale libertà di linguaggi diversi; fra gli altri è il caso della pellicola Follia come poesia (1977/79) che arriva dopo un lungo lavoro insieme alle donne del Frullone, l’ospedale psichiatrico di Napoli. L’entrata in quel luogo di contenzione e violenza è, ancora una volta, la scommessa di stare in contatto con chi ha pagato «la rivolta al ruolo e alla normalità», temi che ritornano anche in Faust/Fausta (1991) – insieme al romanzo omonimo – attraverso cui si scandaglia il legame complesso con un’identità sessuale naturalmente inesistente.

Il 12 luglio del 1985 in una lettera ad Adele Cambria scrive «Mia cara Adele Didone, non lasciamo vincere Enea (…) Ci siamo incontrate in Calabria e tra i gelsomini, il mare, topi e serpenti abbiamo scritto Didone non è morta». Il riferimento è al primo lungometraggio che verrà realizzato due anni più tardi. Si tratta di un’altra scommessa vinta da Lina Mangiacapre, una riscrittura secondo cui la regina di Cartagine resuscita per incontrare nuovamente Enea. Napoli e Cartagine si avvicinano perché entrambe fondate da due donne e legate alla ineluttabilità della catastrofe, al fuoco e al mare.

Del resto proprio come per tutto il «pensiero mitosofico», che a Mangiacapre stava molto a cuore, le varie versioni cinematografiche stanno a rappresentare una radicalità dell’estetica dove l’unica forza di guerra è la bellezza, un’estetica capace insomma di controllare «la forza anarchica dell’immagine».