Mentre l’immaginario da romanzo rosa dei media si sdilinquisce nell’accogliere la nuova nata in casa Windsor, affacciatasi alla vita proprio mentre il regno di cui la sua famiglia è titolare rischia di sfasciarsi, la nuova mappatura di Westminster sarà decisa fra poche ore, con i leader delle forze politiche che concorreranno nelle più incerte elezioni politiche dal secondo dopoguerra a scorrazzare su e giù per il Paese (o sarebbe più corretto dire i Paesi) dell’Unione.

I sondaggi continuano a dare i Tories al 34, il Labour al 33, lo Ukip al 14, i liberal-democratici all’8, i Verdi al 6 e gli altri, tra cui i nazionalisti gallesi del Plaid Cymru e gli unionisti nord-irlandesi del Dup al 5. Gli schieramenti sono ormai definiti. Quotidiani liberal come il Guardian e l’Independent hanno indicato le proprie preferenze, il primo nuovamente per il Labour, dopo aver sostenuto i Lib-dem alla tornata precedente, il secondo per una rinnovata coalizione Tory- Lib-dem che porti avanti lo straziante programma di tagli di quella uscente.

Murdoch ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte: il Sun appoggia naturalmente i Tories, mentre lo Scottish Sun i nazionalisti di Nicola Sturgeon. Un endorsement, quest’ultimo, utilitarista anziché ideologico giacché al magnate australiano fa buon gioco un drastico ridimensionamento della Bbc. Per tutto il periodo antecedente all’apertura delle urne, fissato il prossimo 7 maggio, i sondaggi hanno indicato – e ancora indicano – l’impossibilità che conservatori o laburisti possano vincere tutti i 326 (su 650) seggi che servono per governare senza appoggi esterni. Ciò significa che un altro governo di coalizione è probabile. Meno probabili, ma non del tutto da escludersi, l’ipotesi di un effimero governo di minoranza e le elezioni anticipate, evitate già nel 2010 grazie al matrimonio riparatore della coalizione uscente.

Di fronte all’impossibilità dei due maggiori partiti di recuperare il terreno necessario a governare da soli, il dato è sempre più quello dell’obsolescenza del sistema elettorale uninominale secco, confermato in un referendum del 2011 e concepito per assicurare «solide maggioranze», rispetto al clima di un paese che sebbene paia costantemente sul punto di allontanarsi dall’Europa finisce per somigliarle sempre più quanto a frammentazione politica. Lo scenario è dunque quello del voto tattico: non per qualcuno ma contro qualcuno.

Ad esempio, per arginare la quasi certa alluvione nazionalista che stando ai sondaggi spazzerà via quasi del tutto la storica roccaforte laburista in Scozia, Ed Miliband ha ammonito che chi voterà l’Snp di Sturgeon si ritroverà di nuovo i Tories sul groppone, mentre David Cameron ha più volte ribadito che chi voterà Ukip dello xenoscettico Farage rischia di vedere «l’incompetente» Miliband insediarsi a Downing Street. Al di là di simili esercizi propagandistici, è evidente che le ambedue le possibilità che il Snp appoggi una coalizione Labour e l’Ukip una coalizione Tories sono concrete.

I Lib-dem di Nick Clegg, dal canto loro, cercano di evitare la temuta nemesi elettorale offrendosi di governare con entrambi i due partiti di maggioranza, dando un contributo «di cuore» (leggi: dal volto umano) a una rinnovata coalizione coi Tories e «di testa» (leggi: economicamente competente) in un’inedita coalizione con il Labour.

Tuttavia, il risultato indiretto di queste elezioni è quello di una possibile, duplice uscita: quella della Scozia dalla Gran Bretagna e quella di quest’ultima dall’Unione Europea. La fine dello splendido isolamento istituzionale del paese – dotato di un sistema uninominale per il quale se per esempio i Verdi ottenessero il 10% dei voti otterrebbero comunque solo un seggio – e che lo differenzia radicalmente dal resto d’Europa, dove i governi di coalizione e il proporzionale sono la norma, rischia probabilmente di coincidere con l’inizio di un nuovo – opaco – isolamento del Paese dall’Europa stessa.

«Brexit», ennesimo sgraziato acronimo che definisce l’uscita del Paese dall’Ue, resa possibile dal pericoloso referendum che Cameron, per calmare gli scalmanati euroscettici alla sua destra, ha già promesso terrà se sarà lui il vincitore, è infatti il possibile sbocco di queste elezioni. Porterebbe con buone probabilità a «Scoxit», similare appellativo per l’uscita della Scozia dall’Unione in un secondo referendum che l’Snp è certo richiederebbe.

Le stesse secolari fondamenta dell’Unione tornano dunque a tremare per la fenomenale crescita degli indipendentisti scozzesi, che con la brillante leadership di Nicola Sturgeon – che, va ricordato, nemmeno è candidata; l’ex-leader Alex Salmond lo è – hanno non solo evitato un’emorragia di consensi dopo la sconfitta di misura del referendum, ma gettato nuove basi per l’epocale secessione. Interconnessi come sono, le fisionomie di entrambi questi due storici eventi si staglia minacciosa sulle altre questionidella campagna elettorale: welfare, salute, immigrazione. Nel frattempo, anche le celebrità fanno le proprie dichiarazioni di voto.

Oltre alla casalinga nazionale Delia Smith, che ha esortato a votare per il partito di Miliband, va segnalata la non del tutto imprevedibile «inversione a U» del bad boy Russell Brand, anche lui assalito in extremis da una toccante fiducia nell’istituto della democrazia rappresentativa.

Reduce da una serie di apparizioni a fianco di inquilini sfrattati e in lotta per la casa, Russell, comedian e attore folgorato di recente sulla via dell’anti-establishment dopo essersi reso conto di farne parte, ha appena esortato i moltissimi giovani lettori del suo recente libro, intitolato eloquentemente Revolution, a votare Labour, guadagnandosi così a pieno titolo l’appellativo di «Milibrand». Tanto rumore per nulla.