Negli Stati uniti, dopo l’elezione di Donald Trump, la domanda che tutti si facevano era sempre la stessa: e adesso a chi tocca? E’ possibile che anche Marine Le Pen possa vincere le elezioni francesi? Gli scenari che si delineano sono un’alternativa tra una specie di teoria del domino (i governi liberali cadono uno dopo l’altro e uno spinge il prossimo nell’abisso) e un principio di contagio, su uno sfondo di crollo delle politiche di redistribuzione minate dalla mondializzazione capitalista.

LA BREXIT RAPPRESENTA UN SEGNALE PREMONITORE. Il fallimento di Renzi e la rinuncia di Hollande fanno eco alla sconfitta di Hillary Clinton. L’elezione presidenziale austriaca appare solo come una semplice tregua. La questione di sapere se Merkel «terrà » di fronte all’estrema destra tedesca (prima del recente attentato di Berlino) era considerata una variabile strategica. Ma scopro che le stesse domande agitano l’opinione pubblica europea. E dalle due sponde dell’Atlantico è la categoria del «populismo» che continua a polarizzare analisi e anticipazioni.
In effetti, Unione europea e Usa si rispecchiano in modo rivelatore. Al di là delle molteplici differenze – numerose e ben note – l’interazione dei due processi e la luce che ogni situazione proietta sull’altra devono permetterci di interpretare ciò che si sta sviluppando, da una parte e dall’altra, come una vera e propria crisi dell’istituzione politica e di individuarne i punti sensibili, evitando da un lato le generalità vuote di senso e dall’altro un provincialismo ottuso. Questo è tanto più vero perché, da parte europea, la scala continentale è il livello adeguato di percezione: la paralisi che investe progressivamente i sistemi rappresentativi (Inghilterra, Spagna, Italia, Francia) e li espone alle ricette demagogiche del nazionalismo e del protezionismo non è che l’altro lato della medaglia della decomposizione del progetto europeo inteso come progetto politico. E, da parte americana, il declino dell’egemonia imperiale comincia a far sentire gli effetti disgregativi sul «contratto sociale» di cui costituiva una delle condizioni materiali, e sulla costruzione costituzionale, anche se una delle più antiche e meglio «regolate» al mondo grazie al sistema dei checks and balances.

PER NOI EUROPEI, L’EPISODIO ELETTORALE AMERICANO COMPORTA, mi pare, una triplice lezione (almeno) che dovremmo saper adattare alla nostra storia, alle nostre istituzioni e alle nostre pratiche. In primo luogo – è il senso della « sconfitta » di Hillary Clinton (o piuttosto della sua incapacità a prendere il vantaggio sull’avversario, visto che ha di fatto avuto un maggior numero di voti) – è vano cercare di «neutralizzare» la politica in senso alto (e quindi prolungare senza limiti lo statu quo della governance postdemocratica) camuffando l’intensità delle divisioni che il capitalismo selvaggio ha prodotto o riattivato: fratture di classe (sia economiche che culturali), fratture etno-razziali (intensificate, nella fattispecie, con discriminazini religiose), fratture morali (intensificando in particolare i conflitti sui valori famigliari e sessuali).
In secondo luogo – è il senso del paragone tra i movimenti guidati da Trump e da Bernie Sanders – bisogna rinunciare una volta per tutte ad utilizzare la categoria del «populismo» per amalgamare i discorsi di destra e di sinistra. La crisi del «sistema», in termini sia di legittimità che di rappresentatività, è un fatto politico oggettivo, non è una «dottrina». Le conclusioni che se ne traggono (anche quando non disdegnano delle possibilità di amalgama), sia nel senso di un nazionalismo xenofobo, sia in quello di una ricerca del «popolo» mancante (cioè di una nuova sintesi delle resistenze e delle speranze democratiche) vanno in direzioni diametralmente opposte.

INFINE, IN TERZO LUOGO, I MODELLI ISTITUZIONALI DIVERGENTI, radicati nella storia, offrono senza alcun dubbio condizioni diverse per la politica. Ma non possono nascondere l’emergenza generale, in queste due regioni del mondo (che hanno inventato il modello democratico dell’epoca borghese, poi l’hanno adattato ai movimenti di emancipazione e alle lotte sociali del XX secolo), di un problema costituzionale, che ha come posta in gioco l’oscillazione tra una de-democratizzazione irreversibile e una «democratizzazione della democrazia». Democratizzare la democrazia significa fare posto alla formidabile esigenza popolare di partecipazione, con il rischio di riaprire scontri di «partiti » (o di concezioni del mondo). Significa reinventare una cittadinanza attiva, un «conflitto civile ».

LE SCELTE DI SOCIETÀ E DI VALORI CHE ABBIAMO DI FRONTE, DA UN continente all’altro, hanno valenze temibili, non soltanto mondiali ma «globali » nel senso che, poco per volta, si contagiano le une con le altre, e sembrano assumere una forma di condizione di impossibilità per trattare in modo razionale i dati che le riguardano, sia su scala nazionale che su quella transnazionale. E’ il caso del riscaldamento climatico, che colpisce le risorse e le condizioni di vita di una popolazione in crescita. E’ il caso della deregulation del capitalismo finanziario, o della corsa alla liquidità, il cui rovescio della medaglia è l’esplosione della precarietà sociale. E’ il caso dello «scontro di civiltà», fantasma autorealizzatore la cui base «reale» è costituita dal nuovo regime delle migrazioni e del meticciato culturale. Ad ogni punto di intersezione, la violenza estrema è virtualmente presente, o addirittura essa si scatena, attizzata dalle nostalgie di imperi o dalle pretese di universalità, dagli interessi nel commercio degli armamenti, dal panico securitario (nutrito da pericoli ben reali e altri immaginari riuniti sotto il nome di «terrorismo»).
Di fronte a queste sfide, lo constatiamo ogni giorno, le strutture statali esistenti – nazionali, federali o sovranazionali – sono impotenti (e questa «impotenza dell’onnipotente» genera essa stessa effetti di folla che possono diventare incontrollabili).

INVERSAMENTE, LE «ASSEMBLEE» SPONTANEE CHE FANNO RIVIVERE l’idea del popolo in quanto potere costituente (come Occupy Wall Street, Syntagma o Gezi Park, Nuit Debout ecc.) sono testimonianze dell’energia civica disponibile per un rinnovamento della democrazia, ma sono tragicamente impotenti di fronte all’accumulazione e alla concentrazione dei poteri monopolizzati dall’oligarchia. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di più. Il populismo nazionale – lo vedremo con Trump, come lo vedremo con i suoi emuli europei – non può rispondere né sul piano della protezione e della regolazione, né su quello della partecipazione e della rappresentazione, perché pone in termini irreali e discriminatori la questione fondamentale del posto, o dello spazio di vita, di incontro e di lotte che in un mondo di delocalizzazioni deve organizzare per tutti, a cominciare da coloro che fanno vivere gli altri. Ciò che avevo osato un tempo chiamare un “contro-populismo transnazionale” non costituisce in sé nessuna soluzione, neppure un progetto. Tuttavia è il termine che conviene oggi, credo, se vogliamo riunire i dati del problema, la cui posta in gioco è la sopravvivenza della politica. In Europa, in America. Senza dubbio anche altrove, in termini tutti da inventare.