Spesso, troppo spesso, le parole nascondono i fatti e le intenzioni. Qualche volta, però, i fatti parlano da soli e la loro forza comunicativa rivela, in modo inequivocabile, contenuti ed intenzioni. A distanza di poche ore: a Fermo due lavoratori immigrati, che da mesi aspettavano il giusto compenso, vengono uccisi dal loro ex datore di lavoro in circostanze che, per carità, la Magistratura dovrà chiarire; a Rovigo, sono morti quattro operai, intossicati dall’acido solforico, continuando una serie tragica che la gestione liberista della crisi rischia di allungare.

Una gestione liberista della crisi che considera i diritti – compreso quello alla sicurezza e alla vita – un intralcio alla produzione.

Il Governo Renzi, con un emendamento – invece – chiarissimo, sceglie la sostanziale abolizione dell’articolo 18, in particolare, del diritto dei lavoratori al reintegro in caso di vittoria in sede giudiziale; diritto che verrebbe, tanto per cambiare, monetizzato.

Esiste una relazione diretta e conseguenziale tra questi fatti? Certamente no. Esiste un rapporto culturale e politico, un legame profondo e tendenziale, tra loro? Certamente sì. Nel primo, drammatico, episodio – al di là delle dinamiche specifiche che, appunto, debbono essere chiarite – in ogni caso, cioè anche nel caso in cui non si sia trattato solo di un atto criminale di arroganza padronale e razzista, ma anche di una follia determinata dalle reciproche disperazioni che una crisi come questa determina – comunque sono morti i lavoratori, sono morti coloro che rivendicavano il salario; sono morti i più deboli. L’episodio di Rovigo ci ricorda che, nelle logiche di questo capitalismo, i diritti in tempo di crisi sono una variabile comprimibile come i salari.

Il terzo fatto segnala, invece, la totale subalternità ideologica, del governo e della parte determinante del Pd, alla componente più retriva del padronato italiano e del capitalismo liberista europeo; se è vero, come è vero che persino Squinzi (che oggi sembra aver cambiato idea) dichiarò la sostanziale ininfluenza dell’articolo 18 rispetto ai problemi occupazionali ed alle difficoltà delle imprese. Scelta veramente ideologica, questa; ma non, perciò, priva di finalità e conseguenze concrete. Perché, intanto, dice a quelle élites politico-finanziarie: «Ecco, vedete? Siamo pronti a passare sopra ai lavoratori e ai loro diritti; io, dietro lo smalto abbagliante dell’innovazione, sono in grado di fare ciò che una destra senescente non ha saputo fare». Il vero pragmatismo renziano non si esercita nella soluzione dei problemi reali del Paese, ma nell’accreditarsi come la bassa manovalanza presso i padroni del vapore.

Il sottile, ma solido, filo che lega le due vicende, è dunque – al di là della concretezza delle conseguenze – la visione culturale secondo cui il lavoro è merce che si può usare e gettare, il messaggio che si può calpestare chi è più debole, che i lavoratori sono oggi così isolati, che si può procedere a ristrutturazioni ulteriori degli equilibri sociali ed istituzionali, salvaguardando i privilegi veri delle classi dominanti. Che, insomma, la democrazia reale è così fragile, che non è più un ostacolo ai disegni oligarchici. È un messaggio molto pericoloso.

È importante ed è rassicurante che la Fiom e il sindacato non arretrino, perché in gioco non c’è un totem, ma la democrazia; ma, per lo stesso motivo, è urgente che si ricostruisca una soggettività politica forte dei lavoratori; e questo non può farlo il sindacato. Toccherebbe a una sinistra, finalmente unita, al di là delle appartenenze atomistiche. Questa sfida non è solo un pericolo; è anche un’occasione decisiva; perché i lavoratori sono l’anima di qualunque sinistra, ma sono anche l’asse portante della democrazia repubblicana.

Aggiungo una considerazione: non sottovaluto e non snobbo, l’opposizione della minoranza del Pd a questo decreto. Ma essa può produrre conseguenze reali solo se fa i conti con una domanda più di fondo: come si è arrivati a tanto?