I ponti alle spalle non sono ancora stati bruciati e Matteo Renzi fa il possibile per accelerare la combustione. Fosse per lui sarebbero già cenere. Più che la sostanza è la forma scelta dall’ex presidente del consiglio per attaccare la Ue a dare il senso del momento: Beppe Grillo non avrebbe saputo fare di meglio. «Di fronte a una situazione così innovativa l’Europa si mette a mandare letterine per dire che noi, in base al comma X del protocollo abbiamo questo grande problema dello 0,2 per cento, che è un prefisso. In estate mi ero convinto che si potesse aprire una pagina nuova, poi in 20 giorni, da Ventotene a Bratislava, si è rotto qualcosa».

Sono parole incendiarie, che a Bruxelles non possono essere prese altro che malissimo. Ma sono le parole giuste per chi si prepara a fare una campagna elettorale cercando di sfidare Beppe Grillo proprio sul terreno dell’anti-europeismo, con il nuovo Pd nella parte di chi è sì costruttivo, a differenza degli «anti-sistema», ma se del caso anche più duro di loro.

A suggerire la scelta bellica non sono quei 3,4 miliardi imposti dall’ultimatum europeo, cifra tutto sommato modesta, ma le considerazioni elettorali. A partire dalla consapevolezza che arrivare alle urne dopo un atto di prosternazione di fronte all’ennesimo diktat di Bruxelles sarebbe un pessimo viatico.

Resta da vedere sino a che punto governo e partito siano disposti a seguire il capo nell’azzardo più estremo e più pericoloso. Ufficialmente è così. Da Lisbona, dove giocava in casa trattandosi del summit dei Paesi del sud-Europa, il premier Paolo Gentiloni ha assunto una posizione ancor più drastica di quanto avesse fatto il giorno precedente, sia pure nel suo stile, opposto a quello del predecessore: «Serve un Europa in grado di accompagnare con decisione e convinzione il percorso di crescita degli Stati. Serve un’interpretazione delle regole intelligente e favorevole alla crescita». Il contrario di quel che comporterebbe, come ha spiegato già più volte lo stesso Gentiloni, una manovra correttiva.

Solo che il tempo stringe. Il ministro dell’Economia Padoan è molto meno propenso alla linea dura. Il quadro delineato ieri dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco, sia pur se nascosto dietro l’ottimismo d’ordinanza, è preoccupante: crescita stentata, l’1% in tre anni, e per di più incerta, spread che è «cresciuto di 50 punti rispetto al primo semestre del 2016». Subire una procedura d’infrazione in queste condizioni potrebbe avere effetti micidiali. Per ogni evenienza i tecnici del Mef prospettano quindi misure tali da recuperare almeno una parte di quei 3,4 miliardi. In sé non è una missione. Lo diventa quando si arriva al momento del conto politico.

Un punto d’aumento dell’Iva è già stato bocciato, come ha confermato anche ieri il ministro dell’Agricoltura Martina. Rimangiarsi alcune delle misure previste nella legge di bilancio, come quelle sulle pensioni, avrebbe ricadute nere in termini di consenso e popolarità. La formula consistente in alcuni aumenti delle accise su tabacchi e benzina, sommati alla promessa di tagliare le spese dei ministeri e di anticipare la futura tassa europea sul web rischia di essere rinviata al mittente con lo sdegno riservato a chi tenta di venderti il Colosseo.

Oltre tutto, non è neppure detto che una manovrina del tipo otterrebbe il semaforo verde in Parlamento: Angelino Alfano, che è di fatto il vero “uomo di fiducia” di Renzi nel governo, ha già detto che i centristi non la voterebbero. Non cambierà idea se prima di lui non lo avrà fatto Renzi.

Tra lunedì e martedì Gentiloni e Padoan cercheranno di trovare la via d’uscita da quello che si profila a tutti gli effetti come un vicolo cieco. Lo faranno probabilmente cercando di prendere tempo. Lo sconto invocato, pari alla metà della cifra indicata dalla Commissione, non è arrivato e difficilmente arriverà. Il governo si concentrerà dunque sulla richiesta di rinviare tutto sino a metà aprile, inserendo le misure nel prossimo Def: posizione che, a fronte dei ruggiti di Renzi, dovrebbe configurarsi come un’ipotesi di mediazione. Va da sé che, ove ci si trovasse come Renzi auspica in prossimità dello scioglimento delle Camere, la faccenda verrebbe gioco forza dimenticata. Non va affatto da sé, invece, che la Ue accetti il rinvio.