Si può anche avvolgere la dura realtà con i versi del poeta, come ha fatto Renzi, leggendo alla direzione del Pd la poesia di Fernando Sabino che invita a rimettersi in cammino dopo una sconfitta.

Si può anche raccontare su facebook che sotto gli abiti dell’uomo di potere batte un cuore di padre che fa ritorno a casa e rimbocca le coperte ai figli come nei film. Ma non bastano a camuffare il passo indietro quando poi i fatti, assai poco poetici e molto prosaici, dicono che Renzi ne ha fatti due in avanti.

Non c’è niente di poetico nell’operazione, a metà tra sottobosco e fanteria, di questo cambio di cavallo a palazzo Chigi, avvenuto a tambur battente una settimana dopo la batosta del No al referendum costituzionale. Come se niente fosse successo.

Abbiamo capito che Renzi lascia momentaneamente il governo, giusto il tempo di fare i conti nel Pd con un congresso che farà ballare il Ministero Gentiloni, e indire nuove primarie-trampolino verso un bis a palazzo Chigi.

Alla sinistra interna con Roberto Speranza che chiedeva se chi ha votato No ha ancora cittadinanza nel partito, Renzi ha risposto ricordandogli come il 40 per cento la sinistra non lo ha mai visto «nemmeno col binocolo».

Un modo bullesco per mettere le opposizioni davanti alla storia di un declino ventennale e all’attualità di nessun leader alle viste che possa riunirle e condurle a un competitivo scontro congressuale.

In questo clima da resa dei conti, Paolo Gentiloni, il flemmatico attraversatore di molte stagioni e famiglie politiche della sinistra, come lampo di fulmine ha battuto tutti i record per la velocità di riciclaggio del pacchetto ministeriale.

Tuttavia e a onor del vero, bisogna dire che non è tutto merito suo: se la composizione del governo non è una perfetta fotocopia di quello lasciato in eredità da Renzi è solo perché la vena creativa del futuro gabinetto è finita nelle mani del nuovo, improbabile capo delle feluche, Angelino Alfano, trasmigrato dagli interni agli esteri. Più che una giovane promessa una collaudata minaccia per le gaffes e gli incidenti diplomatici verso cui è irresistibilmente attratto.

Il controllo del sottogoverno resta invece affidato ai due pretoriani del renzismo: Lotti e Boschi.

I due fedelissimi comprimari del disastro referendario restano a guardia del nuovo esecutivo, lui guadagna il ministero dello sport, lei un posto di sottosegretario. E meno male che per rispetto di quella «dignità» rivendicata a se stesso da Gentiloni nel discorso di rito dell’accettazione dell’incarico, la delega per i servizi segreti viene tenuta lontana dal “giglio magico” e assunta con l’interim dal presidente del consiglio.

Poco commendevole è invece l’attaccamento al governo dell’altra grande sconfitta del 4 dicembre, l’ex ministra Boschi ora passata nel ruolo chiave di unica sottosegretaria alla presidenza del consiglio, postazione decisiva per la girandola delle nomine pubbliche. Né gli scandali bancari, né le sconfitte elettorali le sembrano ragioni sufficienti a mollare la presa.

Ce n’è a sufficienza perché il governo Gentiloni calzi come un guanto alla mano che lo guida. La mano del segretario che ha azionato il timer sotto la scrivania del presidente del consiglio, innescando il conto alla rovescia verso la data di scadenza delle elezioni anticipate.

Seppure non salutato dal fatidico “Enrico stai sereno”, tuttavia quel “buon lavoro” inviato da Renzi a Gentiloni un po’ ne fa le veci. Nel suo intervento a chiusura dell’aspro confronto politico nella direzione di ieri, Renzi ha precisato che dopo le danze congressuali, in votazione all’assemblea del partito di domenica, all’ordine del giorno «dei prossimi mesi sappiamo che ci saranno le elezioni». Dunque un governo con qualche mese appena di vita. E del resto anche il presidente del Pd, Orfini, lo ha voluto seccamente ricordare a chi dovesse immaginare, dentro e fuori il Pd, scenari diversi: «La legislatura è finita».

Eppure, nonostante il controllo renziano su governo e partito, il terremoto del 4 dicembre ha aperto sotto i piedi del Pd profonde faglie sociali, più forti della forsennata propaganda che tentava di esorcizzarle. Fratture di classe di cui la sinistra, non solo in Italia, sembra non riconoscere le traiettorie, né trovare la forza per intercettarne il linguaggio e abbozzare qualche risposta credibile.

Così, alla fine, il M5Stelle, con il trucco di semplificare questioni complesse (sfiorando la Lega di Salvini su immigrazione e Unione europea), agitando la piazza e usando la rete, ottiene ascolto e voti.