Complimenti, lusinghe e un fiume di promesse a breve scadenza, ma comunque dopo il 4 dicembre. Il premier Matteo Renzi cala al Sud, terra ostica per il Sì al referendum. Ieri dopo aver fatto tappa a Napoli è arrivato a Bari. Una tappa incerta fino all’ultimo. Ma non poteva rinunciare alla platea dell’Associazione dei sindaci (Anci). Dove Piero Fassino, presidente uscente (ringraziato senza economia di parole), ha passato il testimone al sindaco del capoluogo pugliese Antonio De Caro, criticato dai 5 stelle sul piede di guerra che non l’hanno votato.

I primi cittadini sono figure chiave per la campagna referendaria. Il ministro Graziano Delrio e il sottosegretario Angelo Rughetti hanno lanciato ieri comitato «Basta un SÌndaco». Ci sono già 800 adesioni. Fra gli altri i sindaci Pescara, Reggio Calabria, Cremona, Imola e Cuneo. Si aspettano quelli delle città più grandi, non moltissime, rimaste al Pd. Comunque la loro manifestazione nazionale per il Sì prevista per il 27 ottobre slitta a metà novembre.

Ma è Renzi il front man e dal palco di Bari non si risparmia. Ricorda che lui è uno di loro: «Non vengo a farvi la solita storia dei sindaci importanti per il Paese», dice, «se per la prima volta c’è un sindaco alla guida del governo non è il riconoscimento a una persona ma a una funzione». Poi giù promesse a manate. Soldi sui progetti per le periferie: «C’erano 500 milioni sul 2016, ma avete presentato progetti per 2,1 miliardi. Tutti i progetti presentati saranno finanziati entro il 2017». E contratti: «Sono pronto a firmare il Patto dell’agenda urbana, ne parliamo da gennaio». Sempreché vinca il Sì, s’intende.

In realtà le cose non vanno benissimo per il premier. Il ’partito dei sindaci’ che due anni fa era entusiasta di vederlo a Palazzo Chigi oggi è attraversato dai malumori: tagli, comuni costretti a tagliare servizi. Per questo i sindaci a 5 stelle minacciano di lasciare l’Anci. Ma Renzi non rinuncia a corteggiare i suoi ex colleghi: «Voi non siete solo amministratori di beghe quotidiane, rappresentate il Paese». E a chiedere una mano «comunque vada il referendum».

E però subito dopo arriva lo spot per il Sì: «I cittadini si dividono in due: c’è quello che si mette a controllare il cantiere», un tipo che «ci serve, perché gli sta a cuore la cosa comune». Poi «c’è un altro tipo che sta alla finestra a guardare e dice ’chissà quanto ci mangiano sopra’. Questo è un atteggiamento molto forte oggi in Italia. Di chi vive nel complottismo, nell’idea che siano tutti ladri». C’è da giurare che sono quelli che votano No, il tipo di cittadino da cui tenersi alla larga. Infatti lui si raccomanda: «Non cedete alla rassegnazione quando incontrate troppi di quelli che stanno alla finestra e si lamentano».

Il guaio per Renzi è che questo tipo di cittadini nel Mezzogiorno si incontrano più spesso degli altri. Stando ai sondaggi il Sud si divide fra il No al referendum e l’indifferenza. Per questo nel Pd è partita a «riconquista del Mezzogiorno». I parlamentari del Sud sono stati caldamente invitati a andare in prima linea. Ma la verità è che il premier sa che da Roma può contare più sull’astensione che su un improbabile rimonta del Sì.

Anche perché nelle due regioni chiave del Mezzogiorno ci sono due grandi elettori del No, entrambi pronti a giocare una partita personale sul voto del 4 dicembre. Il primo è Michele Emiliano, presidente della Puglia, invocato come la madonna nelle locali iniziative del No. Il secondo è Luigi De Magistris. Il sindaco di Napoli ieri a margine dell’assemblea ha tuonato contro la riforma: «Non mi riconosco né in Renzi né in D’Alema», ha messo in chiaro, ma «questa riforma è pericolosissima», «accentra tutto il potere nelle mani di un uomo solo» e per di più «aver diviso gli italiani sulla Costituzione è un fatto moralmente e politicamente assai grave».

E poi c’è Roma, lo spartiacque: da lì in giù nello stivale prevale il No. E a Roma c’è Virginia Raggi. Ieri a Bari la sindaca si muoveva come una star concedendosi a decine di selfie. E dal blog di Grillo spiegava le ragioni del suo No: «Fare il sindaco non è un gioco. E fare il sindaco di una città come Roma forse lo è ancora meno», «Dovrei essere anche senatore. Tre lavori in 24 ore. Per queste ragioni io dico no al sindaco part-time e ai giochi di palazzo».