No il dibattito no, non si fa neanche questa volta. Come mercoledì scorso, alla direzione delle dimissioni di Renzi, anche ieri è il presidente del Pd Matteo Orfini a annunciare che anche stavolta non c’è tempo per discutere: alle 14 i capogruppo andranno dal presidente incaricato Gentiloni «e noi dovremo arrivare entro le 13.45 con un voto sulla proposta avanzata da presidente Mattarella». La parola passa al «compagno» Guerini, ma è un ex dc ed è anche soprannominato «Forlani», risate in platea. Il sì a Gentiloni sarà unanime.

Renzi c’è, è venuto in direzione nonostante la tentazione di non farlo, farà le conclusioni del non-dibattito per dire che sarà l’assemblea nazionale di domenica 18 (a Roma) a decidere il congresso anticipato. In realtà lui l’ha già deciso venerdì scorso e i dirigenti Pd lo hanno scoperto dai media. Adesso i renziani debbono solo assicurarsi che domenica si raggiunga il numero legale, la decisione è cruciale per il piano di riconquista di Renzi. Il segretario cita un poeta e lo chiama «passo di danza». In realtà il movimento in tre mosse che ha in testa è uno schema di guerra: primo, vincere il congresso entro marzo, secondo mandare a casa il governo a cui oggi fa gli auguri, terzo tentare la scalata a Palazzo Chigi. Ma prima gli serve un partito ’bonificato’ da gufi e frenatori: «Dovremo prepararci nel giro di pochi mesi ad affrontare una campagna elettorale in cui sarà importante che siano delineate le basi del nostro stare insieme e il programma che presenteremo»

Gli interventi però faticano a rimanere «sul tema». Roberto Speranza a nome della minoranza apre di fatto la discussione congressuale: la fiducia a Gentiloni è scontata, ma «quanto ai contenuti dell’azione di governo valuteremo la capacità di ascolto delle esigenze del Paese. Noi siamo per la stabilità. Ma oggi la stabilità è cambiamento». Quasi un appoggio esterno. Quanto al congresso, Speranza prova a sfidare Renzi: «Deve dire se non c’è spazio nel Pd per chi ha votato No al referendum. Con chiarezza, senza nascondersi dietro gli insulti su internet e le manifestazioni organizzate davanti al Nazareno». Nessuno li radierà, ma per la minoranza tira un’ariaccia. Francesco Boccia spiega che criticare una linea sconfitta «non è lesa maestà», e anche Gianni Cuperlo tenta una mediazione: «Non ho paura del voto, ho paura del risultato. Per questo penso che sia sbagliato iniziare una discussione partendo da rese dei conti ai gazebo». Ma è chiaro che Renzi vuole vincere il congresso utilizzando i bersaniani come bersaglio da asfaltare.

Bersaglio facile del resto. I bersaniani hanno organizzato per sabato 17 la loro assemblea a Roma. Lanceranno la loro richiesta di «discontinuità». Ma l’anticipo delle assise, che pure era una loro incauta proposta prima del referendum, li fa sbandare. Il giovane Speranza non è un candidato in grado di far paura al segretario. Il governatore della Puglia Michele Emiliano sembra intenzionato a tentare la corsa per la segreteria, quello della Toscana Enrico Rossi è determinato a farla. Risultato: la sinistra potrebbe presentarsi divisa in tre nomi, e l’unico ad avvantaggiarsene sarebbe Renzi.

È presto per capire come si schiereranno le «divisioni» delle correnti. Ma è molto più probabile che le aree più grandi, quelle che fin qui hanno appoggiato Renzi – Areadem di Franceschini e Giovani Turchi di Orfini e Orlando – continuino a farlo. Limitandosi a ’pesarsi’ nelle liste che alle primarie appoggeranno Renzi.

Anche Nicola Zingaretti ieri ha battuto un colpo. A lungo invocato come leader della sinistra, il presidente del Lazio, dall’Huffington Post, ha espresso un bilancio molto duro degli ultimi anni del Pd. Perde per «isolamento», per non saper parlare alla parte dell’Italia «più dolente e povera». Quanto al partito, è in corso «una degenerazione che per responsabilità di tutti, ha trasformato i militanti in tifosi e ha diviso i dirigenti tra quelli al “servizio” o “contro” il capo».

Un’analisi impietosa. Che lascia intravedere una possibilità di riorganizzazione dell’area della sinistra: ma non l’annuncio di un nuovo antagonismo con Renzi.

Insomma, il piano di Renzi, riprendersi tutto il partito – che in realtà non ha mai perso – per guadagnarsi la candidatura a premier, al momento non ha rivali nel Pd. Le manovre di questi giorni sembrano avere solo l’ambizione di condizionare il segretario.

L’unico vero intralcio alla sua nuova corsa potrebbe essere la legge elettorale, condizione necessaria per andare alle urne. La prodiana Sandra Zampa annuncia di aver depositato alla camera un disegno di legge per il ritorno al Mattarellum: «È da lì che dobbiamo ripartire».

La risposta di Orfini, da sempre proporzionalista, fa capire che non sarà facile trovare un accordo sulla legge elettorale, innanzitutto nel Pd: basta «torsioni della rappresentanza», dice, «non è con un ritorno ai capisaldi della Seconda Repubblica che noi apriamo la Terza. A prendere a capocciate la storia ci si fa male e si rischia anche di perdere le elezioni».