Forse è possibile leggere l’attuale crisi della democrazia alla luce della controriforma renziana del lavoro e della dialettica interna al Pd. Come attraverso una piccola lente d’ingrandimento.

L’essenza della crisi democratica consiste nel trionfo dell’apparenza sulla realtà. Negli anni Sessanta Guy Debord parlava di «spettacolo» e, da buon allievo di Marx, si riferiva alla potenza simbolica della merce, che rende invisibile lo sfruttamento del lavoro salariato. Ma il trionfo dell’apparenza investe anche le liturgie democratiche che le istituzioni mettono in scena.

I sacramenti amministrati nel cielo della politica nascondono le violenze consumate sulla terra dei rapporti sociali. E mentre ci si immedesima nella nobile fisionomia del cittadinosovrano, non ci si accorge di avere perso anche quel residuo di autonomia che risiedeva nella rappresentanza. Di esserne stati privati da leggi elettorali che escludono le posizioni «incompatibili».

Da consuetudini che affidano la legislazione agli esecutivi (riducendo i parlamenti a grotteschi palcoscenici). E dal trasferimento della sovranità a istituzioni sovranazionali non elettive e a potentati privati.

In questo senso è possibile scorgere nel trionfo dei simulacri l’essenza dello svuotamento della democrazia. E veniamo così al Jobs Act. Nel merito, si tratta di una legge altamente simbolica. Non perché non produca effetti concreti. Al contrario, ne discenderà una brutale lesione delle residue tutele del lavoro subordinato. Si tratta di un atto simbolico perché concepito non per il fine dichiarato (la ripresa economica) ma per dimostrare ai mandanti del governo (il padronato italiano e la tecnocrazia europea) di volere andare in fondo nella normalizzazione neoliberista del paese.

Se questo è vero, come leggere la storia parlamentare del Jobs Act e quali lezioni trarne? È inevitabile a questo punto riparlare del «dissenso» della cosiddetta sinistra del Pd. Seguiamo questa vicenda tragicomica da quando il gesto «riformatore» del governo è entrato nel vivo, cioè dalla controriforma del Senato. Ma il colmo lo si è raggiunto adesso, con la delega sul lavoro. Per due ragioni.

In primo luogo, per l’elevato significato simbolico della materia. Si rilegga l’art. 1 della Costituzione. Si consideri il paesaggio sociale del paese, con i suoi milioni di inoccupati, disoccupati e sotto-occupati, di precari strutturali, lavoratori poveri ed esodati, di migranti clandestinizzati e di pensionati alla fame. Si tenga infine presente che nel mondo moderno, dalla rivoluzione francese in poi, «sinistra» significa movimento operaio, lotte per i diritti e la dignità dei lavoratori.

La seconda ragione per cui la discussione sul lavoro è decisiva chiama in causa lo scacchiere politico coinvolto. Da un lato, un governo fondato sul patto d’acciaio con la destra, che ha scelto di caratterizzarsi con un attivismo «riformatore» volto a neutralizzare ogni capacità di difesa dei subalterni. Dall’altro, un movimento sindacale che – nelle sue organizzazioni più avanzate e rilevanti – ha finalmente rotto gli indugi e deciso di scendere in lotta non solo contro il padronato ma anche contro il governo che ne ha sposato a oltranza gli interessi.

In questo scenario è venuto meno ogni spazio di mediazione e appare inderogabile una scelta di fondo, per la quale del resto lo stesso oltranzismo renziano ha sin qui lavorato. O con il lavoro contro questo governo, o con questo governo contro il lavoro. Come si pone di fronte al bivio la «sinistra» del Pd, volente o nolente simbolo di questo dilemma? Fatta eccezione, forse, per qualche singolo, risponde obbedendo, piegandosi, rivelando che il dissenso era tutta una penosa manfrina e che, al di là delle minacce e dei sempre più flebili strepiti, più di ogni altra cosa conta la difesa del ruolo e dei suoi corollari. Questo dice da ultimo la sceneggiata sull’accordo «faticosamente raggiunto» tra la maggioranza e le minoranze del partito, con tanto di entrata in scena dei comprimari dell’Ncd incaricati di drammatizzare le ridicole concessioni del governo sull’art. 18.

Si dirà: perché prendersela tanto con poche decine di deputati e senatori che se non altro hanno provato a mettere qualche bastone tra le ruote del premier e hanno infine capitolato perché non abbastanza numerosi? Non è più grave la condotta di chi non ha nemmeno protestato?

Intanto chi è d’accordo con Renzi è semplicemente dall’altra parte della barricata, avendo da tempo interiorizzato le ragioni «europeiste» dell’oligarchia a trazione tecnocratica. Criticarlo non avrebbe più senso che discutere con Ichino e Sacconi per ciò che pensano dei diritti degli operai, con Verdini per quel che pensa della Costituzione antifascista o con Monti a proposito di austerity.

La sinistra Pd dovrebbe essere una cosa totalmente diversa, stando a quanto afferma. E non dovrebbe ritrovarsi sistematicamente a portare acqua al mulino di un governo come questo aggrappandosi alle scuse più indecenti, dalla lealtà alla «ditta» alle presunte concessioni strappate all’esecutivo. Se lo fa, tradisce se stessa e inganna quanti le hanno incautamente dato credito. Con un’ulteriore aggravante a questo riguardo. Se tutta questa messinscena avesse fine, sarebbe almeno evidente a tutti che cos’è ormai questo Pd, e forse se ne gioverebbe il tentativo di ricostruire in Italia una sinistra politica degna di questo nome.

Così torniamo al malizioso gioco tra apparenza e realtà. Qualcuno immaginava che Renzi avrebbe cacciato la minoranza degli eretici per punirla della sua insubordinazione. Ma l’uomo sa il fatto suo e capisce bene che, non ci fosse un’opposizione di tal fatta, dovrebbe inventarla, pena il rischio di apparire per quel che è, lo scrupoloso garante della destra economica e politica. Debord parlava di «società dello spettacolo». Ai nostri tempi sappiamo fare ben di meglio. Abbiamo ormai soltantouno spettacolo con qualche misera compagnia di mestieranti, mentre della società ci stiamo allegramente disfacendo.