Non è stato facile fare spazio all’inconsueta «informativa» del presidente del Consiglio, che rivede e aggiorna il suo programma in diretta tv senza bisogno di chiedere ai parlamentari di approvarlo, nei calendari di camera e senato: non si contano i decreti legge in scadenza, i disegni di legge del governo considerati urgentissimi, le riforme assolutamente prioritarie sempre per il governo; e poi c’è la faticosa elezione dei giudici costituzionali e dei consiglieri del Csm, come decisa dal governo. Ma le aule parlamentari sono state ricompensate e Matteo Renzi, in attacco di discorso alla camera dei deputati, ha ricordato subito qual è stato il suo vero «cambio di verso» realizzato. «Abbiamo capovolto la storia di questa legislatura», ha detto, ricordando come le camere «sembravano aver finito nei primi due mesi tutto il futuro che avevano davanti». È il segreto del suo successo, la ragione per cui un parlamento composto da bersaniani, lettiani e berlusconiani si è scoperto improvvisamente tutto renziano. La promessa di allungare la legislatura.

Nella giornata di ieri questo patto tra il premier e i parlamentari, importante per il governo almeno quanto il patto del Nazareno, è stato formalmente rinnovato. «Vi propongo di utilizzare come scadenza naturale la scadenza della legislatura», Renzi si rivolge a deputati e senatori nel nome di un interesse comune – durare – che intende salvaguardare alle sue condizioni: che il parlamento «inserisca la marcia giusta». Ovvero non lo ostacoli troppo, non provi a frenarlo che tanto lui procederà «passo dopo passo», in un orizzonte triennale perché correre non usa più. In caso di difficoltà si potrà sempre rinviare il problema, come faceva Enrico Letta prima di lui e come hanno fatto in Italia un’infinità di governi, che però non si proponevano la «rivoluzione». È così per la legge elettorale che è in sonno al senato da sei mesi, dopo un inutile forcing alla camera, e che ieri Renzi ha sostanzialmente sospinto avanti nel calendario ma con l’abilità di presentarla come argomento urgente. Non perché lo dice lui, ma perché «fare melina istituzionale su questo punto suonerebbe come un affronto al presidente della Repubblica». E in ogni caso «non vogliamo fare la legge elettorale subito per andare alle elezioni».

A sentirlo bene, il famoso «cronoprogramma» del presidente del Consiglio dimostra proprio che non c’è alcuna urgenza di forzare con Berlusconi da una parte e Alfano dall’altra per correggere e approvare l’Italicum. Del resto il calendario sul quale vuole essere giudicato se l’è dato da sé, abbonandosi i primi duecento giorni di governo: gliene restano ancora mille «che terminano alla fine del maggio 2017». E dopo, considerando che la legislatura potrebbe durare altri nove mesi, fino al febbraio 2018? «Si potrà utilizzare quel periodo per consentire alle forze politiche, opportunamente riorganizzate, di dichiarare conclusa l’anomalia italiana con una nuova legge elettorale e presentarsi al giudizio degli elettori in modo chiaro e definito». Vale a dire che dopo tre anni e più di larghe intese – larghissime considerando l’associazione occulta di Berlusconi – il Pd e il centrodestra dovrebbero dirsi addio, avendo appena scritto assieme una legge elettorale che grazie a un super premio e al ballottaggio regalerà la maggioranza del parlamento a chi (non) vince.

Nel discorso dei «mille giorni», dentro all’offerta di sopravvivenza fatta a tutto il parlamento, ce n’è anche una speciale per l’alleato formalmente all’opposizione. Trattandosi di Berlusconi naturalmente riguarda la giustizia, ed è racchiusa in un discorso che dal punto di vista dei principi non fa una grinza. «Il rispetto delle regole significa dire che un indagato ha diritto ad essere considerato innocente fino a sentenza passata in giudicato», dice Renzi accalorandosi. Ed è un richiamo sacrosanto, che però viene collegato alla vicenda dell’inchiesta per le tangenti Eni nella quale il presidente del Consiglio in difesa dell’amministratore delegato Descalzi si spinge ad attaccare non tanto i magistrati, ma persino i giornali: «Non consentiamo a nessuno scoop citofonato di mettere in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro». È lo stesso premier che, lo ricordano i 5 Stelle, quando al governo era Letta chiese le dimissioni della ministra Cancellieri coinvolta in un’inchiesta ma non ancora indagata. E così il discorso suona strumentale, e strumentale per conquistare la benevolenza di Forza Italia sulla riforma della giustizia penale, che dopo tanti annunci dovrà prima o poi partire. Sempre che il parlamento si disponga a seguire il governo, evitando così il ricorso alle elezioni anticipate «che non temo e che dal punto di vista strettamente utilitaristico sarebbero una buona idea». Frase pronunciata al senato che ha spinto i primi lanci di agenzia: Renzi minaccia le elezioni. È stato lui stesso a correggere: «Ho visto che di tutto quello che ho detto il titolo è che andiamo alle elezioni, ma non è assolutamente così».