«Il decreto è solo una minaccia? Direi di no, le parole di Renzi mi preoccupano. Mi preoccupa questa accelerazione di fronte a un Parlamento che sta cercando una soluzione. E l’indeterminatezza, la mancanza di informazione». Stefano Fassina, voce critica del Pd, fin da ieri mattina è stato durissimo con il presidente del consiglio. In un tweet ha sintetizzato la sua contrarietà ai progetti del premier sul Jobs Act: «Renzi dice no a un diritto del lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C».

Gli ultimi dati Ocse, le sollecitazioni di Ue e Bce, gli scontri con Katainen. Un premier sotto pressione. Renzi ha trovato nel lavoro la risposta alla recessione.

Se questa è la risposta all’Europa, lo ritengo ancor più grave. Da sette anni applichiamo l’austerity e come risultato abbiamo la recessione, la deflazione, i tagli alle politiche sociali, e il tutto con un aumento dei debiti pubblici. Renzi, insediandosi alla guida del semestre Ue, avrebbe dovuto chiedere un cambiamento di agenda, e non riproporre le solite ricette conservatrici.

Eppure il presidente del consiglio risponde a tono: lo ha fatto con Mario Draghi, di recente con Jyrki Katainen.

La sua è una retorica anti-establishment, ma poi applica l’agenda dell’establishment. A parte la misura in sé, proporre di riformare con decreto l’articolo 18, mi ha molto colpito il linguaggio con cui Renzi l’ha presentata. È quello della destra, di Sacconi e Ichino, di Mario Monti. Dire che c’è un apartheid tra lavoratori di serie A e serie B, accusando i primi dell’ingiustizia subita dai secondi, è usare quello stesso impianto analitico. Cioè io dico all’operaio di 50 anni, che negli ultimi 20 ha perso reddito, tutele e in centinaia di migliaia di casi perfino il lavoro, che il suo articolo 18 è il motivo per cui suo figlio è precario. Trovo grave che il Pd possa ricorrere a parole mutuate dalla destra.

Anche nel merito, c’è una forte accelerazione, e pare nella direzione in cui vuole andare Sacconi. Che infatti ha apprezzato tantissimo il discorso di Renzi.

Renzi, sia come premier che come segretario, aveva proposto  – a partire dal congresso Pd – il contratto a tutele crescenti, con l’idea che dopo i 3 anni di prova maturi il diritto al reintegro, l’articolo 18 completo. Adesso, dopo la liberalizzazione dei contratti a termine con la legge Poletti, e la sostanziale eliminazione dell’obbligo di conferma per gli apprendisti, arriviamo all’emendamento Sacconi-Ichino che cancella l’articolo 18. É evidentemente un’altra cosa rispetto alle proposte originarie, che – lo ricordo – includevano anche la bonifica della giungla di contratti precari e l’estensione degli ammortizzatori sociali agli atipici. Punti questi ultimi che non si vedono, tanto più a causa della situazione dei conti pubblici e visti i tagli annunciati.

E mentre si cercava un accordo in Parlamento, adesso l’idea di agire per decreto, spinti da un’urgenza. È soltanto una minaccia?

No no, non mi sembra solo una minaccia. E sono preoccupato: mi preoccupa che si voglia intervenire per decreto sullo Statuto dei lavoratori, mi preoccupa questa indeterminatezza dell’annuncio, l’assenza di informazioni. Mentre in Parlamento si stava lavorando per arrivare a un’intesa.

Ma cosa dovrebbe fare il governo per rilanciare la crescita? La manovra di 20 miliardi e il «Jobs Act» sembrano l’unica risposta.

Io credo innanzitutto che non si riuscirà a tagliare 20 miliardi: bisognerebbe intervenire in modo pesantissimo sulla spesa sociale, su scuola, sanità, pensioni. Credo sia difficile anche reperire 10 miliardi, sinceramente. Vedo piuttosto all’orizzonte una manovra di galleggiamento.

Quale sarebbe, invece, la manovra giusta?

L’unica che non ci deprimerebbe ancora, ma che ci faccia tornare a crescere: una manovra espansiva. Con misure una tantum: allentare il patto di stabilità degli enti locali per le piccole opere, varare interventi di contrasto alla povertà e all’evasione. Una politica industriale, con investimenti. E poi estendere gli 80 euro a pensionati e partite Iva.

Dove prendere le risorse? Un programma ambizioso, supererebbe i 20 miliardi.

È un piano da realizzare in un triennio: alcune misure sarebbero una tantum, quindi alla fine non pesano più sui conti. Nel frattempo hai aumentato il gettito perché la crescita è ripartita, e i redditi irrobustiti hanno alimentato i consumi. Bisognerebbe sforare il 3%, ma in modo controllato, motivato dall’emergenza, per poi rientrare nei binari.